Una tendenza molto evidente nella ripartenza del festival dopo i vari lockdown causati dalla pandemia globale è l’inclusione di pellicole che si interessano alle vicende di adolescenti o giovani adulti. Anche se la questione dell’isolamento rimane fondamentalmente in sottofondo, si percepiscono le ferite causate da questo trauma, che va a sommarsi alle molte difficoltà preesistenti nella transizione dall’infanzia all’età adulta. Fra questi si segnalano il delicato I Like Movies di Chandler Levack, l’eccentrico Amanda di Carolina Cavalli (in copertina), l’asciutto Runner di Marian Mathias, il sognante North of Normal di Carly Stone, lo sperimentale Les Pires di Like Akoka e Roman Gueret, il deludente Foudre di Carmen Jaquier e, perché no, anche The Fabelmans di Steven Spielberg (di cui parlo nel segmento Ritratto d’artista).
Regista emergente del cinema canadese, Levack si fa spazio fra la folla con il suo primo lungometraggio, una delle rivelazioni della kermesse torontina; I Like Movies (foto) è un ritratto dell’adolescente Lawrence Kweller (l’eccellente Isaiah Lehtinen), cinefilo incallito di Burlington che si ritrova a lavorare presso un negozio di dvd e videocassette per pagarsi gli studi. Il piccolo e intelligente omaggio ad un’era dell’home video ormai spazzata via dai giganti dello streaming si dipana con leggerezza, affrontando tematiche anche serie (le molestie sessuali, il suicidio, la depressione) con rispetto e intelligenza. Levack sceglie un look un po’ retro per il suo film, come d’altronde la tecnologia e i rituali di cui sente evidentemente nostalgia.
Carolina Cavalli in Amanda invece si proietta in avanti, adottando una postura ironicamente “cool” ricca di stilemi sorrentiniani e di personaggi un po’ sopra le righe. Il film italiano riesce a divertire e a stimolare sincera curiosità ed affetto per Amanda (Benedetta Porcaroli, molto brava qui e anche nell’altro lungometraggio italiano presente al festival, Il colibrì di Francesca Archibugi), ventiquattrenne benestante alla ricerca di un’occupazione (nel senso esistenziale del temine). Fra i suoi progetti ci sono la reclusa Rebecca (Galatéa Bellugi), eletta a migliore amica nonostante le sue proteste, il tenebroso presunto spacciatore (Michele Bravi), fidanzato a sua insaputa, un cavallo e un ventilatore. Molto più convenzionale nelle scelte narrative North of Normal, adattamento dell’autobiografia di Cea Sunrise Person (interpretata nel film da Amanda Fix e River Price-Maenpaa), autrice canadese cresciuta in modo non tradizionale, prima in un teepee nei boschi dell’Alberta e poi rimbalzando di luogo in luogo al seguito della madre (la sempre ottima Sarah Gadon). Carly Stone dirige un buon cast, fra cui si noverano i veterani Robert Carlyle e James D’Arcy, e il film scorre piacevolmente.
Molto più ambizioso è sicuramente il francese Les Pires, che sceglie un linguaggio metacinematico per narrare le vicende di quattro adolescenti nel quartiere popolare Picasso di Boulogne-sur-Mer, nel nord della Francia. Il film si basa sulla premessa che una troupe di cineasti vuole realizzare un lungometraggio con attori presi dalla strada e seleziona gli elementi “peggiori,” ovvero ragazzi e ragazze con problemi comportamentali, difficoltà di apprendimento e guai con la giustizia. Durante le riprese del film “interno,” i giovani protagonisti si confrontano con un mondo a loro estraneo, con la “visione artistica” del benevolo regista Gabriel (Johan Heldenbergh) e le pressioni a cui sono sottoposti. Akoka e Gueret riescono a mescolare realtà e finzione, estendendo la tecnica già utilizzata nel cortometraggio Classe Royale (2016) di partire dal momento del casting per sviluppare la vicenda. Intelligentemente, Les Pires contiene anche una critica del metodo stesso, dimostrando che le teorie di un certo cinema impegnato e/o documentario possono risultare sgradevoli ai soggetti ritratti, le cui sventure vengono sfruttate indiscriminatamente in nome dell’arte. Risultati mediocri invece per Foudre, storia di risvegli carnali e fervori religiosi ambienta nel 1900. Nonostante l’intrigante premessa (il ritorno a casa di una giovane monaca dopo la morte in circostanze misteriose della sorella maggiore), il film non riesce a trovare se stesso, e la postura laconica della narrazione si traduce in pudici accenni a orge adolescenziali e qualche momento di violenza. La regista Carmen Jaquier si poggia sul paesaggio mozzafiato delle montagne svizzere, ma non con il rigore formale che esibisce invece Marian Mathias nel suo austero Runner, in cui le vaste pianure dell’Indiana (trasformate in Missouri e Illinois) trasmettono chiaramente il dolore e lo spaesamento della protagonista Haas (Hannah Schiller) dopo l’improvvisa perdita del padre. Rimasta completamente sola, Haas stringe un temporaneo sodalizio con il giovane bracciante Will (Darren Houle), anch’egli in condizioni di precarietà economica e sociale.