Una delle tematiche più attuali riscontrate al festival è il dibattito sulla morte assistita, scelta operata dal grandissimo e compianto maestro Jean-Luc Godard per mettere fine alla propria vita il 13 settembre 2022. Al festival almeno due pellicole, Il colibrì di Francesca Archibugi e Plan 75 di Chie Hayakawa si sono occupate di questa pratica importante e (in alcuni circoli) controversa.
Tratto dal romanzo di Sandro Veronesi, vincitore del Premio Strega nel 2020, il nuovo film della regista romana racconta la vita costellata di amori e tragedie, passioni inusuali (come il gioco d’azzardo) e fatidici incontri dell’oculista toscano Marco Carrera (Pierfrancesco Favino). Il film parte dagli anni ’70 e finisce con la morte assistita del protagonista, ripercorrendone l’esistenza balzando da un episodio all’altro senza fornire agli spettatori indicazioni temporali o geografiche, ma intessendo quindi una storia basata interamente sugli attori e sulle relazioni interpersonali presenti sullo schermo. Archibugi tiene ben salde le redini di un cast enorme e multilingue che lavora sodo in ogni scena (soprattutto Favino, che sopisce la sua fisicità per servire il personaggio), ma il risultato non si scosta abbastanza dai modelli ben assodati dalla tradizione (ormai fattasi strada maestra) della critica alla borghesia italiana. Al prodotto ben confezionato manca il mordente esibito nel recente Gli sdraiati (2017), di cui si era apprezzato lo sguardo satirico. Il colibrì è un lungo dramma struggente, ma non si tuffa nel cuore dell’importante questione che solleva, ovvero le implicazioni etiche e morali del suicidio assistito, come fa invece il giapponese Plan 75. La premessa di quest’ultimo è la legalizzazione della procedura per gli over 75, con tanto di bonus da parte dello stato e assistenti in carriera pronti a reclutare volontari da appositi chioschi in luoghi pubblici. Ma se la soluzione dal sapore fantascientifico è proposta per ringiovanire la popolazione e creare opportunità professionali per i giovani, la sua implementazione ha effetti psicologici devastanti. La frattura sociale si amplifica ancor di più, sottolineando la profonda solitudine degli anziani e il corrispettivo senso di abbandono dei giovani, che perdendo le generazioni che li precedono smarriscono anche i punti cardinali della propria esistenza.
Altri due film trattano la tematica della morte improvvisa di un genitore, Runner di Marian Mathias (discusso brevemente nel segmento Bildungsfilme) e Raymond & Ray di Rodrigo Garcia. Come già accennato, il Runner è un film rigoroso, intimo, ruvido, accigliato ma non pretenzioso. Al suo primo lungometraggio Mathias intuisce che le domande non hanno sempre risposte chiare, che le conversazioni non vanno sempre a parare da qualche parte, che le persone non sanno dire le cose giuste. La regista americana dimostra una maturità intellettuale ed emotiva che si esprime visivamente in panorami di matrice “malickiana” (ma senza il senso del bello pittorico, che sarebbe fuori luogo qui), in stanze buie, in suoni scarsi e discordanti. Runner è, per molti versi, l’antidoto alla superficialità di Raymond & Ray, accozzaglia di cliché che riesce a sprecare l’ovvio carisma di due fra i “leading men” più interessanti di Hollywood, Ethan Hawke e Ewan McGregor, gli eponimi fratellastri che si ritrovano costretti a seppellire il padre da cui sono straniati da anni. Il brutto film di Garcia mette insieme personaggi eccentrici e al tempo stesso stereotipati, momenti di dubbia comicità fuori luogo e osservazioni superficiali e situazioni trite e ritrite. Da evitare assolutamente.