
Nei palmares dei festival maggiori, talvolta, compaiono premi che sembrerebbero conferiti ufficiosamente “alla carriera”, dati ad autori insigni ma mai premiati prima, e presenti nell’occasione in questione con un’opera che, da sola, non avrebbe invero meritato gli onori. La palma a Winter Sleep è uno di questi casi, e se non infastidisce è solo (e non è comunque poco) perché Nuri Bilge Ceylan avrebbe meritato la vittoria con uno qualsiasi degli altri film da lui portati sulla Croisette negli anni passati.
_x000D_Un’idea (ancora) meno buona è il premio a Alice Rohrwacher, regista che con Corpo celeste aveva dimostrato grande talento, ma che si teme (dopo questo riconoscimento) possa/voglia/debba proseguire sulla strada imboccata con Le meraviglie, quella di un cinema al femminile pregevole ma troppo a misura di stereotipo, anche a livello stilistico.
_x000D_Per la medesima ragione, ci si augura che dopo il XXXX Xavier Dolan passi oltre, anziché infognarsi per una vita nell’equivoco estetico che, ahilui, al momento gli sta soffiando il vento in poppa. Quanto all’ex equo con Godard, ha l’aria di uno scherzo di dubbio gusto. Troppo più coraggioso (e fermiamoci qui), rispetto a Mommy, Adieu au langage, esplorazione del 3d come cinquant’anni fa Godard avrebbe esplorato i falsi raccordi: contro l’illusionismo dell’immagine ma allo stesso tempo a favore di un nuovo incanto pittorico, grazie alle potenzialità cromatiche intrinsecamente “fauve” del digitale. Un premio ineccepibile dunque, come ineccepibile è la palma a Julianne Moore.Il resto del palmares può essere tranquillamente liquidato con un semi-indifferente “ci può stare” (la miglior interpretazione a Timothy Spall, o la migliore sceneggiatura a Leviathan); più importante è affrettarsi a precisare che il film più straordinario visto a Cannes non era in concorso. Non c'è posto per due argentini in competizione, o così pare – dunque la sciocchezzuola qualunquista (ma targata Warner – e Almodovar) Relatos salvajes di Damian Szifron spintona nella sezione minore “Un Certain Regard” Jauja di Lisandro Alonso. In questo capolavoro di pura “mise en scène”, Viggo Mortensen vaga per poco precisate lande desertiche dell'Argentina dell'Ottocento; quel poco che rimane, al di là della visivamente superlativa resa grafica del suo movimento (grazie a luci, montaggio, coreografia degli spostamenti: le basi del cinema) è un misterioso, enigmatico racconto in cui tempi e spazi diversi si confondono, fino a dissolvere in questa confusione l'angoscia esistenziale dell'irraggiungibilità di qualsiasi meta.
_x000D_Da segnalare, sempre nella stessa sezione, il curioso, pulitino ed esilino ritratto della gioventù allo sbando ai tempi della crisi Hermosa juventud (di Jaime Rosales), e soprattutto il bizzarro Bird People (di Pascal Ferran), ingegnoso prontuario ultraminimalista su come sospendere la folle frenesia del nostro presente, per guardarlo da una distanza da cui si può finalmente tornare a respirare.Stendiamo un velo pietoso sul tremendo, fascistoide Maidan di Sergei Loznitsa (che pure firma un ottimo cortometraggio nell'omnibus Les ponts de Sarajevo), e passiamo alla Quinzaine des Réalisateurs. Nulla di davvero sorprendente – ma una manciata di grandi vecchi in piena forma: John Boorman (il suo Queen and Country è non solo una scoppiettante autobiografia dei suoi vent'anni, ma soprattutto una “monografia”, una preziosissima chiave d'accesso al suo cinema, ancora troppo sottovalutato e troppo poco studiato), Isao Takahata (che con le sue nitide forme pittoriche ai margini del vuoto fa intrecciare a un racconto di miracolosa agilità – tratto da un classico nipponico – la natura e la sua sospensione negativa), Fred Wiseman (ancora alle prese con un'istituzione artistica da indagare nelle sue intricate nervature e restituire problematizzandone l'organicità: la londinese National Gallery). E brilla il gioiello P'tit Quinquin, miniserie televisiva in cui per 200 geniali minuti che mischiano crime e commedia la seriosità compunta del suo cinema lascia libero sfogo al suo raramente riconosciuto ma sempre presente potenziale comico. La lotta tra Dio e il Diavolo che imperversa sulla carne degli uomini e sulla superficie del paesaggio della campagna francese non è mai stata così esilarante. E Bresson, finalmente, stringe la mano a Jacques Tati.