CARTOLINA DA CANNES 77 – PARTHENOPE SECONDO PACILIO

Mai amato il cinema di Sorrentino, un regista di talento che fa film che non apprezzo, mi dicevo con serenità e senza arrivare a quegli eccessi che diventano fighetti loro malgrado (la posizione dei Cahiers, quasi una fatwa: «Sorrentino est au cinéma ce que Rondò Veneziano est à la musique, en pire»). Questo fino a The Young Pope e The New Pope nei quali l’autore mi pareva trovare il suo passo, consegnando ai tempi dilatati della serie le sue intuizioni visive, con la narrazione finalmente sganciata dalle esigenze perentorie del timing. In This Must Be The Place, per esempio, era chiaro che la rilevanza dell’apparato visivo soverchiasse quella del racconto, ma a quest’ultimo il film continuava a soggiacere quasi suo malgrado e in modi a volte piattamente automatici. Nei due Pope, in virtù del minutaggio “infinito”, si invertivano i termini secondo una logica che, peraltro, si rivelava paradossalmente anti-seriale, perché, come sosteneva Sorrentino, si trattava davvero di un unico, lunghissimo film, tanto che i compulsatori normali di tali prodotti in molti casi mollavano la presa dopo poche puntate. Non c’era nelle due miniserie il consueto sviluppo verticale del racconto: questo si muoveva, discreto, dietro un centro, focalizzato sulla visione, sulla messa in scena e su un protagonista che si faceva depositario di un immaginario e sua diretta emanazione. Cosa che accade quasi sempre in Sorrentino, certo, ma non con quella felice astrattezza che i Pope mostravano: la stessa che si ritrova in Parthenope che poggia su un personaggio-perno attorno a cui ruota tutto. Dove per tutto intendo non solo un mondo e la sua storia (ancora una volta autosufficienti, senza quasi altrove), ma anche ciò che comportano, a cominciare dal consueto eloquio aforistico che qui scivola naturale, finalmente, senza enfantizzarne le virgolette, ogni dialogo, ogni snodo, ogni sipario sfumando nel sorriso disarmante di Parthenope, la vera chiusura di ogni discorso. Altro che la risposta pronta: è con quel sorriso che Parthenope smonta le retoriche altrui per imporre la propria; è quel sorriso il filo rosso che offre continuità e senso ritmico al film. Un film che arriva all’indomani di È stata la mano di Dio, un lavoro non pienamente convincente perché, al di là delle belle idee e della sincerità (che gli riconosco), mi suona vittima della già patita tendenza a una comoda frammentazione e a un bozzettismo che ne smorzano il respiro.

In Parthenope, invece, per la prima volta il cinema-cinema (pardon) di Sorrentino mi pare esprimersi con una fluidità mai sperimentata prima: la stessa fluidità con la quale la napoletanità riesce a essere mitizzata (Parthenope è una delle sirene: sì, proprio quelle del canto ammaliatore dell’Odissea) e nello stesso tempo incarnata in creatura viva (la protagonista che, certo, nasce dalle acque come una dea, ma diventa professoressa di antropologia), così come la geografia, con levità (una parola che mai prima avrei saputo associare a Sorrentino) sa farsi a un tempo Luogo (esempio: Capri) & Simbolo (= la caducità della giovinezza). C’è molto Fellini in questa mistura, come al solito, ché sarebbe anche superfluo ricordarlo, se non fosse impossibile non sottolinearlo di fronte a questo che pare (dopo La grande bellezza = La dolce vita ed È stata la mano di Dio = Amarcord) il suo Roma: Napoli (come la Capitale felliniana) è dunque coro alle domande sulla vita, con lo stuolo di figure&facce vere&finte a contorno (dal Comandante – Achille Lauro? – a Greta Cool – Sophia Loren? -), col momento ecclesiastico-miracolistico (e la nostra con i paramenti sacri ad adornarne la nudità – che è link immediato -), con quella sequenza magnifica in cui la macchina da presa attraversa i bassi, con quell’onirismo leggero (il frammento Gloria Malva sa tantissimo di Giulietta degli spiriti, però). Anche se poi mi viene anche da dire che Parthenope sta a Sorrentino come Malèna sta a Tornatore, entrambi suonando come apoteosi e sintesi perfetta di una maniera, ma soprattutto perché le loro eroine sono immagini di una bellezza che incarna quella di una civiltà, donne-sirene che catalizzano lo sguardo di chi le circonda, ammaliando tutti, uomini o donne che siano. Parthenope – che se la fa col Popolo, col Capitale, col Clero, Con la Mafia, con la Politica, con lo Star System, con la Cultura – è Napoli in tutte le sue espressioni («Mi chiamo Parthenope, non mi vergogno mai»), donna-città, senza scuorno, di tutti e di nessuno.

Tutto questo, ribadisco, messo su un piano d’opera che scivola felicissimo sulla superficie dell’immagine (ciò che da sempre conta di più per Sorrentino), mosso da un’ispirazione che tutto legittima, a cominciare dall’ode al desiderio (leggi: la fuggevol età del -) che impera e sembra prescindere da tutto, persino dal legame familiare, con l’ombra incestuosa che suona normale-mortale da subito poiché epica anch’essa. Perché, ripeto, c’è il mito in questi personaggi (e quella casa sul Golfo è il loro Olimpo e quel John Cheever a Capri un Omero che si mimetizza nell’opera) che pure, però, sono corpi da subito, anche se l’amplesso di Parthenope è sempre fuori campo, lei come vestale o santa vergine (agli sguardi) anche quando resta incinta. Anche dopo l’aborto. E tutto questo poema concreto si dispiega senza un raccontare puntuale, mostrando (non descrivendo la natura dei rapporti tra i personaggi e squadernando il chi-è-chi) in virtù di questa narrazione solo accennata, evasiva, rapsodica, in equilibrio. Felliniana (rieccolo). Una prova di libertà che trova una scelta felicissima in Celeste Della Porta, perché sconosciuta e non intaccata da visioni preventive o possibili sovrapposizioni divistiche. In questo senso la scelta di farne interpretare la versione anziana (e disillusa e umana e non più mitologica e – perciò – lontana da Napoli) a Stefania Sandrelli diventa a maggior ragione significativa anche come espressione di una verità storica inoppugnabile, quella del cinema: è ancora Parthenope, ma è anche l’attrice e quello che rappresenta nel tempo (il desiderio, la fuggevol età del – ). Del resto sui titoli di coda parte Gino Paoli, e non dite che è una coincidenza.