
Diciamolo subito: Sorrentino non ha mai avuto la minima sensibilità cinematografica. E quando l’ha avuta (L’uomo in più) è perché avevo potuto installarsi su un decennio di cinema napoletano vero fatto da uomini-cinema (non solo registi) ottimi e abbondanti. Avendo un immaginario congelato a quello di uno che era adolescente negli anni Ottanta (pendente in direzione del dark e della new wave senza poi veramente cascarci dentro davvero), ha un’idea di cinema da adolescente, e cioè come una cosa che messa nelle mani del regista permette di realizzare pezzi di pirotecnia visuale più o meno gratuiti: movimenti di macchina acrobatici, monumentalità assortite che sembrano essere uscite da un Paul Thomas Anderson mezzo addormentato dalla digestione postprandiale di una domenica agostana a Panarea, rese digeribili da un sentimentalismo spalmato un po’ come si stucca una parete. Senza più Netflix alle calcagna (come in È stata la mano di Dio), in questo nuovo film su Napoli Sorrentino spinge questo suo priapismo stilistico alle soglie della catalessi, fregandosene di qualsiasi ritmo, limitandosi a compiacersi delle sue magniloquenze registiche, sfogliandole tutte una dopo l’altra e prendendosi il tempo, l’interminabile tempo, di mettere pomposamente in posa ognuna di loro, manco fosse Sergio Leone in C’era una volta in America.
Eppure. Eppure quasi tutti i film di Sorrentino (certo: non quegli aborti innominabili con Sean Penn e Michael Caine) in un modo nell’altro qualche elemento di interesse finiscono per avercelo. Va bene, non è cinema, ma se un regista afilmico affronta con strumenti anticinematografici il tema più cinematografico di tutti (la rappresentazione di una città, che sia Roma o Napoli), vale comunque la pena di prestare attenzione e valutare attentamente l’attrito che ne risulta. Come Roma prima (La grande bellezza), anche Napoli adesso viene semplicemente esclusa dallo schermo: la città non è che un aggregato di narcisismi, è quell’illusione ottica che si crea quando una coscienza, e cioè un occhio che si ritrae dal mondo (la protagonista è un’antropologa, sì, ma un’antropologa orgogliosamente esistenzialista pre-strutturalista), incontra un’altra coscienza che si ritrae dal mondo, e poi un’altra ancora, e così via fino a formare quella che nel film su Maradona assomigliava a una rete (pun intended), mentre in Parthenope è il ritratto dell’omonima protagonista, giovane donna che incarna la Grazia perché è un involucro che contiene e rivela il nulla, ed essendo nulla si può ritrarre solo con un sistema di differenze che la separano da personaggi che in un modo o nell’altro le assomigliano.
Che il centro, foss’anche vuoto, sia l’interiorità, e che l’esteriorità sia convocata solo derisoriamente come pantomima, come tentativo disperato di canalizzare gli sguardi in un punto definito prima che immancabilmente questo slitti su più punti di osservazione che si articolano in costellazione architettonica (pattern visivo, questo, riscontrabile in molte scene: lo struscio della giovanissima Parthenope in centro assediata dagli sguardi maschili, il finto miracolo davanti a San Gennaro, il coito forzato dei due giovani circondati da una folla che li osserva e li incita), basta e avanza a bollare ancora una volta l’immaginario sorrentiniano come letteratura, e non cinema. Eppure. Eppure, siamo sicuri che le città italiane (non necessariamente solo Napoli, ma qualunque grande città italiana di oggi) nel 2024 siano qualcosa di molto diverso da questo aggregato di narcisismi, da questo mancare l’incontro tra interiore ed esteriore, dal mettere ossessivamente in vetrina questa mancanza in ogni minuto ed elevarlo a sistema di convivenza sociale? Non sarà per caso che Sorrentino, ahinoi, ce lo meritiamo?
Effettivamente, il momento decisivo della vita di Parthenope è un utopico momento di conciliazione di interiore e esteriore. Si tratta del lunghissimo, estenuato ballo a tre, in un’estate adolescenziale, con il fratello che si suiciderà di lì a poco e con lo spasimante friendzoned. Il momento, irripetibile, in cui il nulla trova l’unica identificazione possibile, quella di un “né-né”: né narcisismo infantile che vuole solo l’immagine allo specchio (il fratello), né l’ingresso nel paradigma “edipico”, nella coppia regolare come scambio simbolico. Il non poter conservare questo equilibrio omeostatico sarà l’origine, per Parthenope, di una malinconia lunga una vita, e della compulsione a (come diceva in L’amico di famiglia un agonizzante Geremia de’ Geremei) inseguire la bella frase: l’ossessiva ricerca della battuta brillante, del motto arguto, è la vendetta dello specchio contro la parola, è il linguaggio che si sottrae alla propria vocazione di alfiere della Legge, della Comunicazione, della Società Costituita, per diventare narcisismo con altri mezzi, fiammata in cui il nulla dell’interiorità si vendica del non potersi specchiare in se stessa, e dunque dell’essere sempre troppo ingombrante, come il gigante neotenico che il professore cui Parthenope deve la sua carriera accademica tiene da una vita chiuso in salotto. E così, la bella frase che definisce tutte le belle frasi e che dunque chiude il film, non può non indicare esplicitamente questo movimento di perdita e recupero attraverso la parola: «è per potersi salvare che l’amore ha finto il proprio fallimento».
Tutta letteratura e solo letteratura, certo. Ma a forza di dai e dai qualche idea cinematografica, ovvero un’idea al contempo dinamica e spaziale, scappa persino a Sorrentino. Per esempio quella posta in apertura, che riprende esplicitamente l’inizio di È stata la mano di Dio e il suo movimento dal mare alla città che si rivelava essere visitazione angelica in procinto di prendere corpo. Prima che Parthenope nasca, nonno Achille Lauro (e chi sennò poteva ricoprire il ruolo di fondatore, in un film su una Napoli contemporanea sfatta fino a perdere definitivamente visibilità e farsi ritrarre solo in forma di donna mai nata?) fa arrivare in barca una principesca (viene da Versailles) carrozza vuota dal mare alla sua villa sulla costa. L’involucro è pronto, e l’anima che lo abiterà non si confonderà mai con lui: la bellezza del corpo non sarà che segno dell’assenza che gli sta dentro. Se fossero coincisi, avremmo avuto cinema anziché letteratura: accontentarsi, però, potrebbe non essere così sbagliato.