CARTOLINA DA CANNES 77 – LANTHIMOS SI FA IN TRE

Lanthimos ci aveva provato già in Povere creature! a dichiarare, in un modo che più esplicito non si può, che la sua ispirazione principale è (adesso, quantomeno) Rainer Werner Fassbinder. Quasi nessuno prese questa ipotesi in considerazione. Kinds of Kindness, tanto per non lasciare dubbi, comincia con uno che sulla camicia ha cucite le iniziali RMF. Basta capovolgere la M, e il gioco è fatto.
Che c’entra Fassbinder con uno come Lanthimos che viene regolarmente frainteso come emulo di gente con cui lui non ha nulla a che fare, tipo Kubrick o Haneke? Fassbinder era uno che voleva riprodurre, su un palco e poi sullo schermo, attraverso l’arma estetica dello straniamento teatrale, le ossature delle società, le relazioni socio-economico-politico-affettive che la innervano. Ma attenzione: “riprodurre” non significa ricostruirne le dinamiche come queste fossero un set di relazioni già dato una volta per tutte, scolpito nella pietra, di cui semplicemente prendere atto. Le relazioni umane si formano e si intrecciano sempre intorno a un vuoto. Dai melodrammi di Douglas Sirk, Fassbinder aveva imparato a riconoscere questa negatività centrale che polarizza e orienta ogni sistema di relazioni, e aveva soprattutto imparato che il posto dello spettatore e il posto di questa negatività, dentro a ogni film che si rispetti, coincidono.
Fassbinder, poi, com’è noto, usava sempre gli stessi attori. Kinds of Kindness è composto da tre episodi, e ognuno di essi utilizza sempre lo stesso gruppo di attori (fra i quali l’inaudito Jesse Plemons, Emma Stone e Willem Defoe), mettendoli in panni e situazioni diverse, sempre naturalmente straniate antinaturalisticamente grazie alla direzione attoriale che ha ormai reso giustamente celebre il greco (riduzione della recitazione ai tratti fondamentali di un personaggio fino a che solo una sottile modulazione e mitigazione li separa dal meccanico e/o dall’animale). Diverse, sì, ma tutt’altro che prive di punti di contatto. Tutt’altro.

Vale la pena fare lo sforzo e districarsi nei virtuosistici giochi di rime, specularità, parallelismi e variazioni della scrittura di uno scatenato Efthimis Filippou, per scoprire che un file rouge che lega i tre episodi (un colletto bianco bullizzato da un capo che gli chiede di rimanere coinvolto in incidenti stradali; un poliziotto paranoico che crede che la moglie, appena tornata da un’isola deserta, sia in realtà un complotto alieno; una setta neo-hippie che cerca di ripararsi da una presunta contaminazione di massa delle acqua, e una che aspira a entrarvi) c’è eccome. E, come Fassbinder, è nientemeno che una diagnosi socio-economico-politico-affettiva del presente, nella forma del suo scheletro, delle sue configurazioni di base rese allegoricamente. Solo che laddove il presente di Fassbinder era ancora capitalista, il nostro presente è ormai post-capitalistico e neo-feudale. Già dal primo episodio Lanthimos dimostra di stare al più giocato dei giochi contemporanei (per esempio da centinaia di prodotti Netflix): quello della dissezione delle dinamiche degli ambienti corporate contemporanei, dove la manipolazione è tutto, dove non c’è più alcuna differenza tra vita privata e vita professionale, e dove le skills richieste sono assai più facilmente in dotazione alla soggettività femminile che a quella maschile. Tanto la dimensione privata che quella pubblica sono state erose fino a fare del mondo un deserto (la Louisiana si presta benissimo a ciò) su cui ogni tanto si erge qualche casa; e davvero, ironicamente, Kinds of Kindness, film che ci ricorda come pubblico e privato come siamo stati abituati a pensarli ce li dobbiamo scordare, è prima di tutto un film di case (come il film speculare a questo, Il sacrificio del cervo sacro, era un film di istituzioni: ospedali, scuole etc.) più o meno facoltose, filmate con campi lunghi che ci permettono (agli antipodi dell’usuale ipercinetismo hollywoodiano per il quale non sono che sfondi indifferenti, colti in movimento e dunque raramente guardati davvero) di assorbirne le peculiarità architettoniche che, anche da sole, già direbbero tutto. Ciò è tanto più appropriato quanto più, per chi ha la pazienza di seguire lo spigoloso filo allegorico di Filippou, l’assunto centrale risulta essere la nostalgia della middle class in tempi in cui non appartenere a qualche ambiente corporate di alto livello significa semplicemente non esistere. Nostalgia che Lanthimos ammette, fino ad incoraggiare il sogno di stare con un piede lì, nel nuovo strepitosamente ricco mondo neo-feudale, e uno qui, in una middle-class ormai sparita, ma a patto che la middle class riconosca di essere il nuovo proletariato. Se un protagonista con cui lo spettatore è chiamato a identificarsi c’è, è senz’altro quello che risulta dai tre personaggi di Emma Stone, in evidente quanto implicita e non dichiarata evoluzione una volta che tutti e tre vengano considerati in sequenza; non è, però, meno decisivo che il protagonista indicato dai titoli di tutti e tre gli episodi, un irsuto individuo chiamato RMF, è un muto e costantemente morente (ma mai morto) sintomo che campeggia fuggevolmente ai margini di tutti e tre.

Al centro del melodramma, si sa, c’è la differenza sessuale: un limite contro cui ogni tentativo di razionalizzazione delle relazioni non può non sbattere. Come sanno i maestri veri del melodramma (Douglas Sirk su tutti, e dunque il suo discepolo Fassbinder), però, questa differenza in quel genere non fa che razionalizzare in termini consumabilmente narrativi un antagonismo strutturale, una contraddizione di fondo, ancor più decisiva di quello/a tra uomo e donna: l’antagonismo di classe. Nessun pilastro della società capitalista è più fondamentale del proletariato: ma lo è solo in quanto sfruttato, ovvero privo di adeguato riconoscimento sociale. Come Fassbinder rielaborava l’eredità sirkiana trovando posto a una negatività fondamentale (come la differenza sessuale, come il proletariato) dentro l’astrazione dei suoi disegni allegorici, così Lanthimos mette al centro dell’episodio centrale (il secondo) del suo trittico un’illustrazione alla The Lobster (ma anche: alla Martha) di come l’impasse fondamentale tra uomo e donna, configurata in modo tale da strapparla tanto all’ideologia woke quanto alla controideologia uguale e contraria, sia ancora non solo anche la forza positiva che consente il saldarsi della coppia, ma anche niente meno che il perno intorno a cui ruota il nuovo mondo. Sì, anche il nostro mondo post-capitalista e neo-feudale. Sopravvivere nel nuovo mondo, pur con l’inevitabile nostalgia di quello vecchio, vuol dire appropriarsi del negativo al centro di tutto (della differenza sessuale e di classe), soprattutto quando esso ci viene rivelato da ciò che da sempre ci consente, figurandolo, di affrontare l’inaffrontabile: il sogno. Suonerà strano per uno pseudo-cinico come Lanthimos, che per davvero ci spinge ad identificarci con un personaggio al di là di qualunque disincanto (in Lanthimos sempre solo apparente, mai l’ultima parola). Un personaggio, quello “composito” risultante dai tre personaggi della Stone, che si scava un pieno diritto di cittadinanza nel nostro invivibile nuovo mondo post-feudale, solo perché di episodio in episodio, continua sempre, e sempre di più, a sognare.