
Tornato a Saint-Martial per il funerale del suo ex capo panettiere, Jérémie rimane da Martine, la sua vedova. Nata come occasionale, la sua permanenza si allunga, determinando l’inquietudine di Vincent, figlio di Martine. Se la narrazione si muove al presente, però, ogni situazione sembra implicare un passato non detto che va a riattivarsi in forme anomale, bizzarre, violente. A cominciare dal rapporto più che amicale che il protagonista sembra aver avuto con Vincent nel contesto di una comunità il cui silenzio sembra celare consapevolezza e onniscienza (l’abate: testimone, narratore implicito e deus ex machina). Quella di Guiraudie insomma, è una scrittura tanto liquida quanto densa nei sottotesti e ambigua nell’interpretazione, muovendosi costantemente sul filo della realtà e della sua rilettura simbolica e psicoanalitica. Così Saint-Martial per Jérémie è un teatro mentale nel quale si attua una ricognizione dell’io in forma di narrazione quasi favolistica (l’abate è il mago/grillo parlante che appare sempre al momento giusto, ammonitore e salvatore insieme), in cui fatti e sogni, pulsioni e decodifiche sembrano convivere e in cui desideri frustrati (e come sempre in Guiraudie pieni di paure e dubbi) trovano infine una realizzazione gioiosa o nefasta, una composizione ragionata, teorizzata in forma di evidente apologo. Non è un caso se la camera da letto in cui dorme il protagonista diventi scenario di apparizioni continue, se il suo sonno sia costantemente disturbato, se il giovane chieda che gli si stia accanto perché possa addormentarsi serenamente. Con umori che in qualche modo richiamano – per versi diversi, ma con dinamiche simili – il Tom à la ferme di Bouchard (e Dolan), Guiraudie muovendo peraltro il racconto su un piano peculiare in cui, come d’abitudine, i generi si mescolano: il film inizia come un dramma intimo e familiare, evolve in giallo di provincia à la Chabrol (in cui, però, l’omicidio sembra non avere una vera ragione o averne molte), per poi assumere i caratteri della commedia nera e, in chiusura, della farsa. Il regista non pone limiti alle possibilità del racconto, le espande, le fa rimare con l’assurdo e le reinventa secondo logiche imperscrutabili, giocando con una morale alternativa, in cui categorie, convenzioni e ruoli vengono messi in campo per essere smentiti, rimeditati in chiavi inaspettate (Misericordia, recita il titolo originale, un concetto della religione cattolica ribaltato in modo sorprendente). Una lettura di Eros e Thanatos che potrebbe suonare provocatoria se non fosse giocata su toni così leggeri e col consueto amore per i personaggi e i loro corpi lontani dalla perfezione, per un linguaggio insieme letterario e quotidiano, per un paesaggio materico e astratto insieme.