CARTOLINA DA CANNES 77 – ARMAND, BUON SANGUE NON MENTE

A seguito di un lamentato abuso avvenuto a scuola e che coinvolge due alunni, i genitori di questi, convocati dalla direzione dell’istituto, si confrontano per stabilire ragioni e torti. Da lì il tentativo, in assenza degli studenti coinvolti, di ricostruire faticosamente fatti e circostanze che, anziché chiarirsi, man mano che gli elementi si accumulano, si fanno sempre più nebulosi. L’attacco iniziale fa pensare molto a Carnage,  il film di Polanski tratto dal dramma di Yasmine Reza: anche in questo caso, sul campo del rapporto tra i due ragazzi, si va a giocare una partita tra gli adulti in cui i primi sono solo un argomento, un’arma, un pretesto. In ballo, in questo caso, non ci sono solo le famiglie, ma anche un sistema scolastico manifestamente debole, composto, guarda un po’, da altri adulti indecisi, confusi, pusillanimi. Tanto che la questione è messa nelle mani di una nuova insegnante, mandata avanti come eventuale capro espiatorio, alla quale si raccomanda di non prendere posizione e di non esprimere opinioni. Di essere, insomma, cerchiobottista: il preside incarna così una figura apicale normalmente mediocre che subodora la magagna e che, lungi dal prendersi qualche responsabilità, non solo medita come scansarla, ma costringe l’unica persona che sfugge alla comoda costruzione adulta dei fatti (la giovane insegnante, per l’appunto) a sacrificare la sua prospettiva per una soluzione qualsiasi, anche iniqua, che non coinvolga la scuola.
La discussione della questione risulta da subito piena di crepe, le versioni dei fatti offerte scricchiolano (persino le ricostruzioni dei genitori del bimbo che sarebbe stato abusato non collimano tra loro), i legami tra gli adulti – man mano che la discussione va avanti – si delineano più chiaramente (i rapporti di parentela, quelli clandestini, ruggini e traumi – il rilascio graduale delle informazioni sui personaggi è uno dei punti di forza dello script -), dipingendo un quadro che definisce l’incidente scolastico come innesco di una guerra che, a un livello sotterraneo, serpeggiava da tempo: il sospetto è quello di una vendetta trasversale della madre del presunto abusato nei confronti di Elizabeth, in quanto amante del marito. E come questo mondo adulto (che si allarga man mano che il film si avvia al finale) in nulla differisca dal mondo dei bambini le cui logiche prevalenti sono quelle dell’autoconservazione, dell’ottusa prevaricazione e del pregiudizio elementare (Elizabeth è un’attrice, una pecca stante il conformismo ipocrita della controparte). 

Il debutto dietro la macchina da presa di Halfdan Ullmann Tøndel sorprende, però, non tanto per ciò che mette in scena, ma per come gestisce la narrazione: fin dall’inizio il regista, ad esempio, indulge sull’edificio scolastico, incombente e austero, espressione di un’istituzione che più che autorevole sembra un po’ terrificante, ché l’incipit ammicca all’horror (l’allarme antincendio che suona) e, nello sviluppo, le mure esterne (i titoli iniziali) e i suoi corridoi interni, che risuonano dei ricordi appassiti degli adulti, evocano una casa di fantasmi che rima con l’Overlook Hotel. Il fuoricampo (sancito dal titolo: Armand non lo si vedrà mai) è l’elemento cardine su cui si costruisce non solo l’ambiguità del racconto (tantissimo si delega all’immaginazione dello spettatore), ma anche la tensione narrativa (Elizabeth attende gli altri genitori, arrivo annunciato dal minaccioso rumore dei passi che si avvicinano, solo come esempio).
Ma tutto il film manifesta una varietà inusuale di toni differenti: nel dramma di fondo si diluisce un certo umore di commedia, alcuni spunti arrivando persino al demenziale (l’epistassi dell’assistente scolastica sa quasi di satira vontrieriana); non si disdegnano l’estasi visionaria (quella sorta di sabba finale, in odor di Polanski), una parentesi musical e un finale teatralissimo e simbolico. E poi una scena sottilmente rivelatoria in cui Elizabeth (Renate Reinsve è eccezionale) non smette di ridere. In quello sfogo irrefrenabile che mette a disagio anche lo spettatore, Tøndel (figlio di Liv Ullman) sintetizza un grido d’aiuto, la richiesta isterica di un ritorno alla normalità, il rimarcare l’assurdità della questione per come viene affrontata.