CARTOLINA DA CANNES 76 – SCORSESE, FINALMENTE

Ciò che da sempre fa di Martin Scorsese un cattolico inquieto, è la prossimità dell’ebraismo. “Prossimità” qui va inteso in molti sensi, molti di essi intrecciati tra loro. Non c’è dubbio: a inquietare il regista italoamericano è, più di tutto, il sospetto che nel rifiuto dell’incarnazione ci sia qualcosa di più cristiano del cristianesimo stesso. Ma può essere una questione solo teologica una questione che fin da bambino Scorsese vedeva incarnata nelle lotte dell’una e dell’altra etnia per spartirsi il territorio newyorkese, e che poi sublimerà in Casinò e, meno direttamente, in tanti altri capolavori?
In effetti, il lato squisitamente teologico della questione è già stato risolto definitivamente in Silence, film in cui Scorsese fa pace con l’ebraismo (senza mai citarlo) andando a fondo della categoria di “tradimento”, categoria che è al cuore di ambo le religioni e che lì diventava uno strumento per tracciare una linea divisoria che non era rassicurante senza essere allo stesso tempo paradossale. Fin lì, l’ebraismo Scorsese aveva cercato di esorcizzarlo nel più rassicurante dei modi, ovvero servendosi di Kafka. Ma il kafkiano Fuori orario riusciva ad essere un remake di Taxi Driver in forma di commedia (come era del resto Re per una notte appena prima) solo corteggiando un equivoco che rimarrà addosso a Scorsese per una parte non piccola della sua carriera: l’equivoco dell’individuo inerme vittima del sistema. Certo, non è difficile cadere in quell’equivoco portando Kafka al cinema: persino Orson Welles, con il suo Processo, lo dribbla solo intrecciandolo alla propria, squisitamente idiosincratica automitologia di perseguitato di lusso. Il suo Processo, Scorsese l’ha girato con Shutter Island, congegno narrativo esplicitamente paranoico (tutto ciò che vive il protagonista, lo vive a causa di una macchinazione ai suoi danni) che tuttavia (è il suo limite) elegge a proprio telos la rivelazione del momento in cui l’innocenza (quella di rimanere all’esterno della macchinazione) finisce e comincia la colpa, comunque imposta dall’esterno. Non che quel film rinunciasse a intrecciare perversamente colpa e innocenza, ma quest’intreccio veniva autodichiarato così esplicitamente da vanificare ogni paradossalità, lasciando sempre lo spettatore nella posizione, tutto sommato confortevole, di sapersi raccapezzare rispetto a quella reciprocità, di conoscerla e chiamarla per nome.

Killers of the Flower Moon rinuncia precisamente a questa “comfort zone”. In Shutter Island l’identificazione tra lo spettatore e il protagonista Di Caprio veniva incoraggiata tradizionalmente, e mantenuta anche dopo che essa autodenunciava il proprio carattere manipolatorio. In Killers of the Flower Moon, lo spettatore non sa mai, mai, che pesci pigliare rispetto a Ernest, questo piccolo reduce della guerra mondiale che, in Oklahoma, si accasa con un’indiana Osage per farla morire senza dare nell’occhio e drenare i profitti petroliferi che quella tribù si trovava in mano, manipolato dal massone Bill (Robert De Niro) che fa finta di esser loro amico. La certezza che Ernest lavori per Bill ce l’abbiamo da molto presto, ma ciò, tra un voltafaccia presunto e uno vero (tutti, alla lunga, indifferenti), non impedisce minimamente che l’amore per la moglie che egli continua imperterrito ad avvelenare non sia e sembri genuino. Tutto è possibile perché per lui tutto è indifferente, e tutto è indifferente perché ormai, con la Prima Guerra Mondiale, il peccato originale della Storia Ernest l’ha già contratto. Non vedo, non sento, non parlo, non capisco, non scelgo, non sono nulla: e in quanto nulla tutto va bene, tutto può coesistere senza alcun conflitto tragico ma neanche (come ancora nell’imperfetto kafkismo inaugurato da Fuori Orario) equivoco comico. In quanto nulla che cammina, Ernest è al centro di quel processo unicamente, inesorabilmente distruttivo che è la Storia, tritacarne in cui tutto fa la fine degli indiani, tutto, persino il manipolatore Bill che del demiurgo onnipotente (ciò di cui aveva ancora bisogno il paranoico Shutter Island) non ha nulla, e tutto ha del maneggino mafioso pronto a venir spazzato via da un mafioso un po’ più grande di lui e con metodi pressoché identici (J. Edgar Hoover e il suo FBI) prima che lui stesso faccia la medesima fine a propria volta. Nessuno che entri nella Storia è immune dalla condizione inderogabile della partecipazione alla Storia, che è l’impermanenza: anche chi, come il Dalai Lama in Kundun, all’afferrare religioso di quest’impermanenza ha votato la sua vita intera. Tutti, insomma, siamo dei mandala che la Storia spazza via, e mandala sono gli Osage disposti in cerchi concentrici (come la forma di un occhio?), guardati dall’alto, dall’occhio divino che è l’unico che davvero può coincidere con il movimento della Storia. Con buona pace di Bill che, lui, pensava (è la definizione stessa di suprematismo bianco) di essere solo l’agente di una Storia rispetto a cui i nativi americani erano condannati, nessuno si è mai salvato, si salva o si salverà mai, lui compreso. Non avendo fine, lo sterminio non finisce nemmeno quando finisce: negli anni Venti, i nativi americani di fatto non esistevano più come comunità, eppure gli Osage erano ancora lì, perfettamente integrati nel sistema global-petrolifero dei bianchi. Ma appunto, indiani siamo tutti. E per questo, Killers of the Flower Moon non è Pocahontas né Avatar (e su Cameron torneremo in seguito): tutto è tranne che l’accumulazione originaria marxista (dove, i capitalisti, hanno preso il Capitale da cui hanno iniziato?) mascherata da caduta-dal-paradiso innescata da un più o meno presunto innamorato dell’Alterità. Proprio perché dal paradiso, negli anni Venti, gli Osage erano già stati cacciati da tempo. La Storia come carneficina c’è sempre stata: non inizia certo con la modernità. Dunque nessuna esistenza è pre- o post-storica.
L’unico vincitore del gioco al massacro della Storia è precisamente ciò che non esiste: il Capitale. Il colpo fortunato (lucky strike) di Ernest si ribalta, nello straordinario prefinale, nello sponsor della trasmissione radiofonica che racconta la Storia a spettatori che, come al cinema ai tempi della persistenza retinica dei fotogrammi, vedono immagini che non ci sono. Anche il brand (Lucky Strike) è un’immagine. La società dello spettacolo, diceva Guy Debord, è il Capitale giunto a un grado di condensazione tale da diventare immagine: è, letteralmente, la concretizzazione di tutto il nulla da cui parte, a cui arriva, e che attraversa la Storia. Lo conferma, appunto, il mandala in forma di occhio rimirato dall’occhio divino nell’ultima scena: il nulla della Storia esiste, come esiste la forma concreta di questo nulla che è il Capitale, e dunque esiste l’immagine, ma che esista un soggetto che manovri il Capitale e che veda l’immagine non è che una (inevitabile) illusione paranoica, un’immaginaria fantasia proiettiva di stabilità da dentro l’incessante massacro. Il film suscita e smantella sistematicamente questa illusione paranoica nel momento stesso in cui il target per definizione delle illusioni legate alla manovrabilità del Capitale (“gli ebrei”) viene evocato en passant in un paio di dialoghi per essere poi lasciato cadere nel vuoto.
Nella medesima trasmissione radiofonica, uno degli speaker è Scorsese in carne ed ossa. Ciò chiarisce al di là di ogni dubbio il cuore dell’operazione: raggiungere un punto di completa indistinzione tra tutte le possibili istanze narratoriali. Non c’è più narratore in prima o in terza persona come non c’è più alcuna coerenza tra le incompatibili soggettività che abitano il personaggio di Di Caprio. Scorsese ci invita a identificarci col protagonista Ernest prima di renderlo un personaggio con cui diventa impossibile identificarsi – ma anche allora non lo guardiamo semplicemente dall’esterno, il suo punto di vista diventa melmosamente non-discontinuo con quello più umilmente cronachistico che, in terza persona “onnisciente”, tesse le relazioni e gli eventi del film. Il contrario dell’alternanza rigida tra epos e archivistica documentaria di Gangs of New York: un’indistinzione questa sì vicinissima alla scrittura di Kafka, più impersonale dell’impersonale stesso. Killers of the Flower Moon è dunque un fiume melmoso ma inesorabile: privo di contorni narratologici definiti (qual è il punto di vista? Che cosa esattamente la narrazione ci sta nascondendo “strategicamente”?), segue comunque, scena dopo scena, una direzione logica assolutamente rettilinea. Bill che manipola il nulla ambulante Ernest non è che un coltello che cerca vanamente di tagliare l’acqua, melmosa, di questo fiume, prima che la mano che lo regge venga tagliata da un altro coltello (l’FBI). E non è forse, il conflitto fertile tra prima e terza persona, da sempre la chiave del fiammeggiante stile visivo di Scorsese, qui quanto mai discreto e che si limita a qualche virtuosistico movimento di macchina o stacco di novanta gradi (laterali o verso l’alto) dentro l’anonimo, indifferente compilarsi della narrazione?

Resta una domanda, la più importante. Raccontare la Storia dal lato dell’inevitabile presupposizione di un occhio divino che presieda ai suoi massacri, e di conseguenza dal lato “narratologico” dell’annullarsi a vicenda di prima e terza persona nell’impersonale scorrere di una Storia che travolge tutto ciò che non sappia rendersi non-vivente (il Capitale, Dio), non è certo qualcosa di privo di implicazioni teologiche. Ma queste implicazioni non erano, come si è detto, già liquidate una volta per tutte da Silence?
Una cosa, dopo Silence, ancora rimaneva da fare. Una cosa che Scorsese prova a fare da più di vent’anni (in parallelo a Quentin Tarantino, altro grande cineasta-cinefilo che, in quanto tale, sa quanto gli attori possono incarnare il cinema senza bisogno di recitare): un documentario su Leonardo di Caprio. L’eroe di Titanic (che Killers of the Flower Moon, storia anti-drammatica e anti-romantica di un proletario che prova a lasciar morire una ricca per prenderle i soldi, inverte precisamente) è infatti, come e più che nel paradosso dell’attore di Diderot, il nulla fatto persona. Se Di Caprio è tra i migliori attori al mondo è perché la sua espressività non è solo espressività, ma espressività più lo sforzo per uscire da un’inespressività che non si può non avvertire guardandolo, ma che rimane irreperibile, traducendosi paradossalmente in una perpetua espressività. Di Caprio è la collera del non poter permanere in un’inespressività che unica gli sarebbe naturale. Ritagliandogli finalmente il personaggio dicapriano perfetto, un personaggio che è un nulla ambulante rispetto a cui ogni determinazione identitaria è indifferente, e che per questo è identico sia quando recita sia quando non recita, Scorsese va al di là delle implicazioni teologiche del mettere in scena la Storia come Nulla. Prima ancora delle tre ore e passa in cui queste implicazioni vengano impostate, estrinsecate e risolte, la questione è già risolta in anticipo facendo di Di Caprio un soggetto dalla consistenza quanto mai illusoria ma di cui è inevitabile illudersi. Facendo insomma di Di Caprio, del nulla, l’incarnazione.