CARTOLINA DA CANNES 76 – KAURISMAKI E ALTRI PREMIATI

Un verdetto equilibrato, si diceva ieri. Il premio della giuria va a Fallen Leaves di Aki Kaurismaki: un contentino, a parere di molti, visto che il finlandese è stato il trionfatore dei bollettini critici cannensi. Caso tipico di aggregazione di consensi su film di valore indiscutibile, ma anche opere che non spostano di un millimetro il discorso del loro autore né dicono cosa sta accadendo nel cinema attualmente, compito che un festival come Cannes dovrebbe assolvere. In quest’ottica il podio Triet – Glazer mi sembra molto più appropriato e lungimirante. Questo mi conduce a uno dei miei lamentosissimi leit motiv relativi ai festival, cioè che i grandi maestri (o almeno tutti quelli impalmati o superpremiati) dovrebbero a un certo punto mollare la competizione per consentire a quella sezione di intercettare qualcosa che sia davvero sintonizzato col contemporaneo, farne l’espressione dello spirito del tempo, come è talvolta accaduto con  le palme d’oro a Sesso, bugie e videotape di Soderbergh (un’opera prima!), Cuore selvaggio di Lynch, Barton Fink dei Coen, Pulp Fiction di Tarantino o, più di recente, Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti di Apichatpong o Parasite di Bong. Premiare i Dardenne con Rosetta, nel 1999 aveva senso – la lezione dei belgi ha poi nutrito il cinema realista dei successivi vent’anni -, metterli in competizione nel 2022 (dopo una caterva di premi vinti) o riassegnare il concorso 2023 a Ken Loach, molto meno. Lo stesso vale per Kaurismaki che ha presentato a Cannes un bellissimo distillato della sua arte, un film chapliniano (dichiaratamente, in un modo semplice e poetico, non spoilero) che narra la storia della ricerca dell’amore (e della felicità) oltre le avversità del caso e della vita. Trovandoselo in competizione, come far finta di nulla? Giusto allora dargli un premio della giuria che sembra dire «non ci siamo dimenticati di te», meno opportuno sarebbe stato dargli la palma, a mio avviso.

La stessa questione la ripropongono i premi alle due interpretazioni, modi (neanche troppo velati) di segnalare due film non ignorabili. Il premio a Merve Dizdar per Kuru Otlar Ustune di Ceylan in questo senso suona quasi beffardo perché tutti si aspettavano il premio all’attore, ma a quel punto come si disbrigava la pratica Wenders? Il film del turco (un altro maestro, super premiato) è stato l’ennesimo trionfo critico, tanto che colpisce il parere negativo di Le Monde (vagamente umorale) che parla di sceneggiatura confusa. Sul film di Wenders (premiato intelligentemente l’attore Koji Yakusho che incarna tutto il senso dell’operazione) i pareri sono stati molto più frastagliati e in effetti Perfect Days è opera clamorosamente in bilico tra l’amabile esercizio zen, con una freschezza di linguaggio che certi ventenni si sognano (basterebbero gli stralci onirici a dare la misura della maestria del tedesco), e la tirata da boomer che esalta analogico, feticismo da collezionisti, libri di carta, musica su nastro e tutto quanto fa nostalgia e aitempimiei. Del resto, nel 2023 intitolare un film Perfect Days e andare di Lou Reed come il Nostro faceva nei ruggenti anni 80 è davvero una (discutibile ma rispettabile e viceversa) dichiarazione di intenti. Rimane da dire del premio alla sceneggiatura, vero punto forte di Monster di Kore-eda (e, per la prima volta dal 1995, non scritta da lui), regista che continuo a non amare, ma che quest’anno firma un lavoro da (ri)vedere.
Italia a bocca asciutta, leggo. E allora? Anche la Cina di Wang Bing è a bocca asciutta. Anche il bellissimo film di Todd Haynes lo è. E lo splendido Breillat. E Wes Anderson che, dopo Glazer, aveva la cosa più bella (e importante) del concorso (ne parliamo all’uscita). Ripeto: e allora?