CARTOLINA DA CANNES 76 – J’ADORE NANNI

Vorrei incontrarti tra cent’anni, cantava Ron. E io con lui. Perché è sempre maledettamente difficile recensire un film di Nanni Moretti all’indomani dell’uscita: l’ho capito negli anni – credo di averlo già scritto, ma non ricordo dove – che i suoi lavori vanno visti in prospettiva, riletti nel tempo, lontani dall’oggi in cui siamo immersi (questo 2023 che viviamo in diretta). Faccio sempre l’esempio di Aprile (un titolo che è già un riferimento temporale dal quale distaccarsi): quando uscì mi sembrò (non ero solo, giuro) un’opera minore e poi, rivisto qualche anno dopo in tv, mi apparve in tutta la sua precisione. Parlo dei film di Moretti più autoreferenziali (non La stanza del figlio, non Tre piani, per intenderci, che non credo rivedrò più), ma di quelli “apicelliani” e quelli più personali. Che non dovremmo mai prendere sul personale. Nel senso che a volte ci si dimentica che bisogna valutare i film e non Moretti. E che non vanno prese le misure del suo moralismo come se da questo dipendesse il giudizio sull’opera. Valutare piuttosto in che modo Moretti esprime questo se stesso (col moralismo incorporato) nella congiuntura che il suo film ferma sullo schermo. Faccio un esempio. Prendiamo la storia di Netflix per come messa in scena in Il sol dell’avvenire. E prendiamola alla lontana. Aneddoto. Al festival di Venezia intervisto per FilmTV, a strettissimo giro, Rebecca Zlotowski e Romain Gavras. La prima, a proposito della costruzione narrativa del suo I figli degli altri, osserva che «quando non proponi svolte evidenti o colpi di scena, chiedi al pubblico di attendere, perché comprenderà il tuo disegno solo alla fine. E questo può disorientarlo. […]. Ma ho voluto questa cosa, è una dichiarazione anche politica. […], un film che non si dichiara nei primi 20 minuti probabilmente non sarebbe accettato in una piattaforma. Questo tipo di sfida la puoi lanciare solo con il cinema: per questo la sala va difesa». Romain Gavras ribadisce un concetto già espresso in conferenza stampa (il suo era un film targato Netflix) e afferma che Athena inizia con un pianosequenza da capogiro anche perché è destinato alla piattaforma e deve essere dirompente fin dai primi minuti. Mi impressionò questa coincidenza e, in maniera più o meno identica e con umoralità variabile (dal preoccupato all’indifferente), l’ho ritrovata in altre affermazioni di registi lette di recente. È il concetto che Moretti esprime tra le righe (mica tanto) nella scena del briefing (le parole sono importanti) con i vertici di Netflix. Niente di nuovo, si potrebbe pensare, l’hanno già detto tutti. Però adesso questo punto dolente è cristallizzato in un film che – quando lo reincontreremo tra cent’anni – restituirà esattamente lo spirito del suo tempo, la questione alla giusta temperatura, un nodo al pettine del 2023. Perché se in quella scena c’è sicuramente l’attaccamento (morboso?) di Moretti alla sala, l’idiosincrasia per la piattaforma (motivata, peraltro), c’è anche un nodo globale che riguarda noi che il cinema lo guardiamo e coloro che lo fanno: quello del film come puro prodotto; quello della resistenza, per esempio, di un Thierry Frémeaux ad accettare in concorso a Cannes opere che nascono per lo streaming e che non vedremo mai sul grande schermo; quello della libertà degli autori da censure e autocensure, del modo (inquietante?) in cui la scrittura di un film si è modificata in relazione al contesto nel quale il film verrà visto; quello dell’algoritmo come co-sceneggiatore e di tutte le questioni che vi si connettono: la complessità e la necessaria leggibilità della storia, la riconoscibilità dei personaggi, gli argomenti che vengono affrontati (e in quale percentuale), le tematiche ridotte a keyword. In quella scena, attraverso il filtro dell’insofferenza morettiana, passa tutta questa roba qui. Come attraverso l’autoassoluzione morettiana (si parla di politica) passa quella di tutta una fetta del sentire attuale a sinistra.

Per questo non bisogna prendere Moretti sul personale, perché il suo personale è un tema del film, non meno di quanto lo è quello di Woody Allen (non lo cito a caso) quando parla del o al suo psicoanalista: c’è sicuramente lui lì dentro, è evidente, ma questo non rileva da un punto di vista critico, ma come elemento argomentativo, chiave di lettura, motivo del film. Come nella storia della violenza al cinema (non nuova per chi di Moretti sa, eppure di nuovo nuova – scusate il bisticcio -) con il siparietto alla Annie Hall della telefonata a Renzo Piano e a Martin Scorsese, con quel tornare ossessivo sul momento dell’esecuzione finzionale, la sua analisi sul set congelato, che è uno dei pezzi di questo film destinati a rimanere. Aneddoto. Pochi giorni dopo aver visto il film di Moretti, guardo su Netflix (ahiahi) Il giorno sbagliato con Russell Crowe che all’epoca avevo mancato. Se hai appena visto Il sol dell’avvenire credo sia impossibile (ma davvero impossibile), di fronte al film di Derrick Borte, alla sua rozzissima parata di violenze compiaciutissime, non pensare alle parole di Giovanni. A cui però poi chiederei cosa pensa della violenza di Tarantino, visto che nel finale gli scippa l’idea del cambiamento del corso della Storia, da Inglorious Basterds a C’era una volta a Hollywood. Comunque. È in questo incidere come un tarlo lo stato delle cose che risiede il fascino del cinema di Moretti, un autore che, per tanti altri versi non mi affascina. Ed è un fascino sottile che può sfuggire a chi non ha una visione di ciò che Moretti ha fatto (/è). Aneddoto. Una volta ho chiesto a Pupi Avati della giuria di Cannes di cui faceva parte e che assegnò la palma d’oro a Pulp Fiction e se fosse vera la leggenda che narra che alla riunione che seguì la proiezione del film di Tarantino, Clint Eastwood, che era presidente, avesse esordito dicendo: «Ieri abbiamo visto la palma d’oro», chiudendo ogni discorso sul massimo premio da assegnare. Avati ha smentito recisamente, parlando al contrario di unanimità sul film, aggiungendo però che fu dura far accettare all’americano l’idea di un premio a Caro diario di Moretti. Perché a Eastwood non solo Caro diario non era piaciuto neanche un po’, ma gli era parso il film di un dilettante. E che si dovette arrivare con critiche e giornali alla mano per convincere Clint che il film aveva avuto un generale plauso, per poi assegnargli il premio alla regia. Dilettantesco, questa è la percezione che si può avere non solo del cinema di Moretti, ma anche di uno dei suoi titoli più indiscutibili. E non è il giudizio di uno spettatore qualsiasi, ma di un uomo di cinema non qualsiasi. Questo fa comprendere quanto l’avventurarsi in un film morettiano presupponga, per una sua lettura, la conoscenza dell’autore, le sue caratteristiche. Chi è. Cosa ha fatto. Così l’iniziato non può non rendersi conto che Il sol dell’avvenire segna l’atterrare di Moretti al centro dell’opera, di nuovo nel ruolo del regista del film di cui il film parla: è un ritorno a casa, rassicurante, anche comodo. Come il racconto della sinistra di oggi guardando allo ieri. Come il farlo attraverso l’autobiografia, attraverso la crisi di coppia, come la nascita del figlio (Aprile) o la perdita della madre (Mia madre), eventi personalissimi attraverso i quali filtrare lo Zeitgeist e restituire la propria idea di impegno. Perché tornando al chi-è-cosa-ha-fatto, è chiaro dalla sua opera che il modo del romano di intendere l’impegno politico passa per una riflessione che pone al suo centro l’intimità della persona, forse perché nella fragilità e nelle umoralità del personale emergono le sfumature, quelle che mancano agli slogan o alle posticce certezze della politica praticata oggi. Dimostrazione: solo dopo l’abbandono della moglie, Giovanni decide non solo di cambiare il finale del suo film che prevedeva il suicidio del protagonista, ma anche di riscrivere il corso della storia e della Storia, dando vita a quell’utopia che il titolo del film di Moretti evoca.

Perché, come Il sol dell’avvenire che stiamo vedendo, il film di Giovanni – ambientato in Italia all’epoca dell’invasione sovietica dell’Ungheria – cela, sotto l’apparenza di una rievocazione storica, un’analisi tutta attuale della situazione personale del suo artefice. Perché la discussione tra Ennio (Silvio Orlando), segretario di un circolo romano del PCI e redattore dell’Unità, e la moglie comunista Vera (Barbora Bobulova), che Giovanni (detto Nanni?) sta girando è evidentemente quella che il regista evita di fare a casa sua (un rimosso che decritta la sua attrice protagonista: «Chi se ne frega della politica, questo è un film d’amore!»), quella discussione elusa con una moglie (Margherita Buy) che da sola porta avanti, in analisi, l’elaborazione del percorso di coppia, che da sola prende la decisione di chiudere il matrimonio. Giovanni quella discussione e quel conflitto li trasla nella finzione, li esorcizza lì, nel film che sta girando. Tradotto: non è la scena dell’addio girata sul set a essere brutta, è proprio l’addio a esserlo. Un film nel quale la crisi matrimoniale – che è anche una crisi artistica (la moglie che, non solo per la prima volta produce un film di un altro regista, ma supportando un discorso autoriale agli antipodi di quello di Giovanni) – si traveste da crisi ideologica. Perché (ribaltiamo ancora) è nel personale che il regista affronta il discorso dell’impegno. Per questo facevo notare come nel felliniano Dolor y gloria lo stesso Almodóvar, che di cinema autoriflessivo se ne intende, prendesse per la prima volta una piega autobiografica di marca fortemente morettiana con quel mix Sogni d’oro + Medici + Aprile Mia Madre facendo (mi cito) «della rappresentazione della sfera privata (il dolore) e pubblica (la gloria) lo strumento per sondare anche altre dimensioni (politica, cinefila), nel contempo ricostruendo un’identità». Anche in quel caso, come nei film di Moretti, conoscere ciò che il regista è /ha fatto porta lo spettatore a un altro livello di consapevolezza. Tornando a noi: si prenda la sequenza da girotondo felliniano che è il finale di Il sol dell’avvenire nella quale sfilano in strada tanti attori-personaggi di film precedenti. Lo capisci se lo sai che lì Moretti sta evocando tutto il suo mondo, lo comprendi se sai assegnare a quelle facce il loro ruolo, se cominci a pensare che forse apparirà Laura Morante (non c’è). Se non lo sai, per te quelli sono solo volti (più o meno noti) nella folla. E di questo Moretti è consapevole. Come sa che recita come canta. Stonato sapendo di esserlo, rimarcandolo, facendo di quella disarmonica interpretazione una cifra riconoscibile. Perché questo è quello che accade nel suo cinema, è esattamente questo che lo rende suo. Ed è per questo che è assurdo invocare che Nanni non vi appaia o che chiami a recitare al suo posto un “bravo attore”. Sapete chi lo dice? Esatto, coloro che non sanno chi-è-cosa-ha-fatto. È molto importante, insomma, nel valutare Il sol dell’avvenire non rimproverare a Nanni Moretti di essere Nanni Moretti. È davvero importantissimo non farlo. Dunque non fatelo. Non fatelo. Non fatelo anche se molti di quelli che sostengono questa necessità, ed esplicitamente o implicitamente vi dicono di non farlo («Non fatelo!»), poi rimproverano a Wes Anderson (uno per tanti) di essere Wes Anderson. Anche in quel caso non fatelo perché lo so che sembra un altro discorso, ma è lo stesso. Solo che riguarda un altro regista.
#nonfatelo