CARTOLINA DA CANNES 76 – IN CONCORSO UNA TRIET PROCEDURALE

Tra le molte barzellette che Slavoj Zizek suole raccontare, ce n’è una che ricorre in modo particolarmente frequente:
Esterno notte. Un lampione acceso. Un tizio sta frugando nel fascio di luce che viene dal lampione. Gli si avvicina un altro tizio. “Hai perso qualcosa?” “Sì le chiavi di casa” “E le hai perse in questa strada?” “No le ho perse in un vicolo completamente privo di illuminazione un paio di isolati più in là, ma qui si vede meglio, c’è più luce”.

Questa resistibile freddura descrive alla perfezione l’operazione a monte di Anatomie d’une chute di Justine Triet. Una scrittrice di successo che capiamo subito essere anaffettiva e manipolatrice, deve fronteggiare, una volta rinvenuto il cadavere del marito (scrittore che non riesce a raggiungere il successo, e nemmeno a manipolare la moglie) appena fuori dal loro chalet vicino a Grenoble, un’accusa di omicidio. Segue processo, gogna mediatica e quant’altro.
Come ormai hanno scritto tutti già all’indomani della presentazione a Cannes, non ci viene mai rivelato se sia lei l’assassina o meno. Varie cose però vengono alluse in maniera pressoché inequivocabile. Un lungo flashback sul loro burrascoso rapporto di coppia materializza i sospetti di qualsiasi spettatore che non sia totalmente sprovvisto di senno: il livello di anaffettività della protagonista è tale da lasciarsi dietro la soglia di “stronza” di parecchie lunghezze. Altri elementi, pur non affermando niente di definitivo, rendono pressoché impossibile dubitare che il marito, effettivamente, si sia suicidato. Quanto della sua decisione fosse dovuto al comportamento di lei si potrà anche vagamente intuire, ma non è comunque, naturalmente, qualcosa che si possa sanzionare dal punto di vista penale.
Ed è per questo che, per quanto il film sia brillante a livello di scrittura, recitazione, regia, tensione e quant’altro, permane un sospetto di furbizia. Come il tizio del lampione nella barzelletta, il film si concentra sulla questione legale, ma la questione legale non è l’essenziale della situazione. L’essenziale della situazione è invece il ruolo involontariamente giocato da lei nel suicidio di lui. E che sia l’essenziale, il film non ce lo dice mai chiaramente, ma lo allude indirettamente in molte maniere, in modo tale che non possiamo non pensarci. Ma se l’essenziale è questo, perché il film si concentra su tutt’altro, toccando la questione invece solo il tanto che basta per poterla nascondere sotto il tappeto? Perché, in altre parole, Triet fa un film giudiziario su qualcosa che non ha nulla a che vedere con la perseguibilità penale?

In buona sostanza, perché scambia in modo interessato un tabù per un mistero. Nell’incapacità di un individuo (uomo o donna: poco importa) di pensarsi come parte di una coppia, e più in generale di pensarsi in altri modi che come un singolo, non c’è alcun mistero. Ma in un’epoca come quella odierna, in cui tanto dibattito, soprattutto anglosassone, sul ruolo della donna in rapida mutazione nella società e nella coppia fatica a staccarsi da un’idea di emancipazione intesa come emancipazione esclusivamente individuale, ecco, in un’epoca come questa, andare a toccare le magagne del pensarsi uno quando si è in due, è un autentico tabù, anche in assenza di alcunché di misterioso. Un peccato di leso individualismo. Meglio dunque sfiorare la cosa senza affrontarla davvero, e costruire un’elaborata architettura giudiziaria a mo’ di alibi. Un’architettura che per stare in piedi è costretta, per così dire, a una misura “omeopatica”: a inglobare cioè un corpo estraneo come il melodramma. Non c’è gimmick più melodrammatico del bambino elevato a deus ex machina: è questo che succede in Anatomie d’une chute – anche perché il bambino è, in fondo, la quadratura del cerchio tra la coppia pensata come Uno e la coppia pensata come Due.
Perché, dunque, travestire da mistero quello che è un tabù tutto contemporaneo: quello dei danni collaterali dell’individualismo benintenzionato? La risposta deve partire da lontano. L’industria francese ha cominciato già da (almeno) una quindicina d’anni a corteggiare gli esiti migliori della serialità televisiva americana. Da almeno quindici anni in qua, in concorso c’è quasi tutti gli anni un film francese di più di due ore che prova a sintetizzare il cinema d’autore all’europea con la serialità americana più illuminata (da Racconto di Natale a Il profeta a 120 battiti al minuto a molti altri). Nel 2023, questo film era Anatomie d’une chute. Naturalmente, importare la serialità americana non può essere solo questione di perizia di scrittura: ad essere importata deve essere, in qualche misura, anche una certa visione del mondo. Nel modellarsi su quella matrice, dunque, Triet ha dovuto fare i conti con precise coordinate ideologiche, non da ultimo inerenti ai rapporti tra i sessi come anche loro inclusi nella universale lotta degli individui per la manipolazione reciproca pro domo propria (chiamiamola pure ideologia “woke”) celebrata da una serie Netflix e l’altra pure. Di ciò, tuttavia, Triet ha tenuto conto rimanendo lucidamente consapevole dei loro limiti.

In altre parole, Triet è una regista troppo intelligente per non sapere che la rozza visione anglosassone per cui l’emancipazione coincide semplicemente con la libertà di manovra individuale ha dei limiti, e belli grossi. Quindi rimane in temerario equilibrio, suggerendo che i danni collaterali del pensarsi uno quando si è in due è qualcosa alla cui esistenza si fa allusione, ma senza che questa incapacità del singolo di pensarsi in due venga minimamente affrontata. L’allusione, tenuta ai margini del dramma processuale in cui di fatto sceglie di esaurirsi il film, funziona da rimozione, o tuttalpiù da esorcismo.
Oltre che troppo intelligente per non conoscere i limiti di ciò che ha provato con successo ad importare (fino appunto ad aggiudicarsi la Palma), Triet è anche una regista colta, ed ecco dunque che, per rileggere la serialità televisiva contemporanea toccando al contempo i limiti della sua ideologia, utilizza l’Otto Preminger di Anatomy of Murder, altro celebre dramma processuale in cui il colpevole rimaneva in sospeso.
Ma attenzione. In Preminger, il mistero viene provato per assurdo, nel momento stesso in cui l’essenza si rivela essere nulla più che la contingenza – o, in altre parole, la retorica. Questo significa che prima Preminger sposa l’ottica per cui tutto è retorica, a cominciare dal suo stile registico mobile e ampolloso; successivamente, però, Preminger mostra i limiti della retorica. E se la retorica ha dei limiti, allora non è vero che tutto è retorica, perché qualcosa che gli è al di là dovrà pur esserci. Ed è qui che entra in gioco il mistero.
Non può, però, dirsi mistero la contraddizione di base del personaggio della Triet: quello di essere capace di pensarsi solo come singolo anche quando in due. Non lo può perché, anziché fare emergere e “processare” la propria retorica come in Preminger, il partito preso scelto da Triet (che semmai fa impersonare la retorica dall’antagonista: l’avvocato dell’accusa) è quello di una estrema oggettività: regia esterna ai propri personaggi, niente sentimenti, ritmo competente, pura funzionalità. Il classico insomma – o quantomeno ciò che viene ritenuto classico in un’accezione comodamente accademica. Ma se così stanno le cose, l’incapacità di pensarsi in due del singolo che non ha alcuna voglia di derogare dal proprio autoriferimento non è un mistero, per la semplice ragione che a scavare nel personaggio non ci si è nemmeno provato, vista la regia totalmente esterna di cui sopra. Non è un mistero, ma un semplice tabù: qualcosa che si sceglie (per un falso partito preso di oggettività come semplice rimozione del soggettivo, come in un film non dissimile quale il remake di Beguiled di Sofia Coppola) di non approfondire. Sostanzialmente per convenienza, perché è più comodo così.