CARTOLINA DA CANNES 76 – FOUR DAUGHTERS DI KAOUTHER BEN HANIA

Che Kaouther Ben Hania sia tutt’altro che estranea alle derive concettuali dell’arte contemporanea, era già evidente nel The Man Who Sold His Skin che presentò a Venezia nel 2020. Conviene ricordarselo, quando ci si trova davanti alla prima parte di questo nuovo film, che mette a confronto la tunisina di mezza età Olfa e le sue due figlie (mancano all’appello altre due figlie, di cui si dirà a breve) direttamente con le attrici chiamate dalla regista a interpretarle. La continua intrusione delle prime, che si raccontano direttamente davanti all’obbiettivo e interagiscono organicamente con le seconde, sembrerebbe suggerire un’adesione totale all’ideologia contemporanea secondo cui l’unica rappresentazione valida è ormai l’autorappresentazione in prima persona singolare: nel mondo di TikTok, non hanno più senso né le storie né identificarsi con esse, perché nessuno si identifica più con nessuno se non con se stesso. Conta solo l’immagine allo specchio, mentre non conta più il racconto (dunque il Simbolico, dunque la Legge). Ben Hania fa di tutto per alimentare l’equivoco, spingendo a fondo sul pedale della ruffianeria e dell’ammiccamento facile e ridacchiante verso lo spettatore, del tipo “donne che si raccontano senza veli” o qualcosa del genere. Non bisogna, però, lasciarsi ingannare. Ben Hania sta solo giocando, ma sta puntando grosso. Come fossimo in una versione argutamente aggiornata di Imitation of Life di Douglas Sirk, il gioco di specchi tra finzione e realtà si fa sempre più indistinguibile dal gioco di specchi tra madre e figlia – un intreccio che il melodramma classico ha indagato in lungo e in largo, e le cui tracce sono reperibili qua e là anche nella docufiction Four Daughters. Non è, insomma, che solo perché TikTok (e similari) ha(nno) preso il sopravvento sul cinema, che quest’ultimo scompaia. Anzi. Ad assottigliarsi fino a scomparire è, semmai, l’autoraccontarsi. Più si autoraccontano, più appare chiaro che Olfa e le figlie non hanno nulla da dire su loro stesse che non sia già determinato a priori dalla Storia con la S maiuscola di cui sono parte. Primavera araba del 2011, seguita dal riflusso integralista islamico. Momento di autodeterminazione (anche sentimentale e sessuale) per le donne protagoniste, seguito dal toccare con mano il vuoto dell’autodeterminazione (quando, appunto, non sia mediato dal Simbolico, cioè dalla Legge), con conseguente rimbalzo verso l’estremo opposto: l’adesione all’ISIS. È questo, il segreto delle due figlie mancanti. No, decisamente, l’ideologia contemporanea dell’autorappresentazione come unica rappresentazione legittima possibile è qualcosa che Ben Hania lascia alle Céline Sciamma e alle Adèle Haenel del caso. Four Daughters è agli antipodi di quel cinema così falsamente cool, così falsamente femminista e accondiscendente verso le mode del momento. Se a queste ultime, inizialmente, sembra aderire, è solo per sorprenderci, in corso d’opera, con un ribaltamento a 180°. La moda occidentale dell’autorappresentazione come unica rappresentazione legittima viene rispedita al mittente, corredata del suo logicamente inseparabile lato oscuro: l’oscurantista iconoclastia à la ISIS. La buona coscienza dell’Occidente che si suppone avanzato (qui incarnata dalla diva nordafricana chiamata a interpretare Olfa) scompare letteralmente di scena, per far posto alla consapevolezza che le facce della medaglia non sono meno di due, e ogni rappresentazione (compresa l’autorappresentazione), anche in assenza di cadavere, è un’evocazione dei morti. Nel senso che sono i morti che evocano noi, non il contrario. Il potere ineguagliabile di dare la vita, è anche (bellocchianamente) quello che trasmette, epidemicamente, l’oblio di questa consapevolezza.