Con Il potere del cane, Jane Campion aveva rotto un silenzio durato anni, principalmente per collocarsi in maniera autorevolmente trasversale rispetto all’ideologia woke contemporanea – proprio lei che per anni era stata la “femminista ufficiale” del cinema globale.
Con questo nuovo film, Catherine Breillat fa più o meno la stessa cosa. L’été dernier è un treno lanciato contro una certa idea di empowerment femminile, e segnatamente un’idea molto popolare nel dibattito anglosassone mainstream: quella secondo cui della condizione femminile andrebbe restaurato innanzitutto il riconoscimento di appartenere a una posizione di inattaccabilità morale. Semplificando (ma non troppo), la formula che riassumerebbe questa angolazione (rappresentata esemplarmente, nel concorso di Cannes 2023 in cui anche il film della Breillat è stato presentato, da Anatomie d’une chute di Justine Triet) potrebbe essere: la donna è vittima, quindi innocente, quindi merita una parità altrimenti negata.
La Breillat invece ci fa simpatizzare con una donna che sbaglia, mente e fa di tutto per difendere la sua falsa versione degli eventi. Nonché, scandalo degli scandali per i moralisti politicamente corretti contemporanei, predica bene e razzola male. Avvocatessa specializzata in abusi minorili, tradisce il marito con il figliastro che lui ebbe con un’altra, e nega l’evidenza ribaltando le carte in tavola, accusando il marito di volerla mettere in posizione sfavorevole (come ribaltamento “difensivo” dell’assai attivo supporto emotivo che lei fornisce a lui). Per riuscire a mentire efficacemente, lei formula esplicitamente questo desiderio di lui, che lui non arriva mai a confessare e probabilmente nemmeno a sospettare; lui, però, abbozza davanti a un tradimento di lei che finge di non conoscere. La complementarità è geometricamente precisa, e quel caposaldo del regime patriarcale chiamato “matrimonio” è più salvo che mai. Come siamo passati a ciò partendo dal lato opposto del lato di moebius, che è quello che sembravamo percorrere all’inizio del film e che sembrava indicare che l’unica cosa che sembrava contasse fosse l’edonismo di lei, è impossibile a dirsi, e questo non è il minore dei pregi del film.
Non la prima apologia della menzogna ai fini del mantenimento dello status quo matrimoniale, naturalmente. Citofonare, per dirne uno tra tanti, Claude Chabrol. Ciò che però fa di L’été dernier un grande film, è che, a differenza di Chabrol e degli altri, Breillat gioca sulla tensione insostenibile tra la menzogna di cui fa l’apologia, e uno stile franco fino alla brutalità (non si dovrebbe mai dimenticare che tra coloro che tennero a battesimo Breillat ci fu Maurice Pialat), carnalissimo, che non si tira indietro nemmeno davanti ai lati più imbarazzanti della sessualità. Ma anche quando non tiene la cinepresa immobile e crudamente impassibile davanti al sesso (cosa che naturalmente fa spesso), Breillat continua a colpire, anche a decenni dai suoi esordi, per l’abilità poco eguagliata di tracciare i contorni di un personaggio con una posa, un’occhiata, un tic, un’esplosione violenta – anche quando le fluttuazioni delle relazioni tra i personaggi (inclusa quella “estrema”, tra l’atteggiamento materno – o sostitutivo del paterno – e l’attrazione sessuale) vengono impercettibilmente registrate in lunghe scene di impianto spiccatamente frontale.
Il contrasto tra l’astrazione della finzione e la concretezza del sesso non è l’unica collisione dialettica su cui il film gioca. L’été dernier comincia con l’alternarsi di due primi piani. L’avvocatessa arrivata, pienamente in possesso delle proprie emozioni, e l’adolescente (sua cliente) visibilmente sconvolta da ciò che prova. Com’è noto, la Breillat si è specializzata con molte opere sull’età “ingrata” di poco successiva all’infanzia; qui però sembra far sfumare l’opposizione stessa tra il controllo e l’esplosione, tra l’età adulta e l’adolescenza. Se femminismo vuol dire superare l’ottica binaria, allora si vada fino in fondo e non ci si tiri indietro nell’utilizzo della dialettica, fino al decisivo crinale tra Corpo e Spirito: questo sembra suggerirci la Breillat.
La finzione è più importante della realtà. Non si tratta, però, del cinico relativismo utilitarista degli avvocati. Solo la finzione apre la possibilità non della coerenza, non dell’incoerenza, ma della coerenza dell’incoerenza: definizione, quest’ultima, tra le più accurate possibili dell’unione coniugale.