CARTOLINA DA CANNES 76 – BELLOCCHIO E IL RAPIMENTO MISTICO DI EDGARDO MORTARA

Il dettaglio-chiave intorno a cui ruota la pressoché interezza di Rapito, è il momento immediatamente successivo al prelievo di Edgardo Mortara dalla casa della sua famiglia. Finché è in casa, Edgardo piange e strepita in piena tradizione melodrammatica (genere su cui torneremo). Appena mette piede sulla barca, Edgardo si zittisce, si fa immobile, svuotato, e diventa letteralmente un altro bambino.
Perché? Perché Rapito è, innanzitutto, un film sulla Legge; più in particolare, su una dimensione specifica della Legge, che è quella della sua vigenza; e più in particolare ancora, sui limiti spaziali di questa vigenza. Che non sia questione di accuratezza storica ma dell’ennesimo anagramma delle ossessioni di Bellocchio lo capiamo subito: il rapimento dal grembo materno è naturalmente l’onirica condensazione-e-spostamento delle fantasie matricide che hanno strutturato il suo cinema fin dal primo lungometraggio (“è morta la mamma?” chiede il piccolo Edgardo poco prima che venga notificato l’ordine di prelievo). Non essendo questione di accuratezza storica, l’ebraismo può trasformarsi in una questione del tutto personale: l’esemplificazione di una legge tutta materna. È la Legge della Casa, non della comunità, la quale semmai confluisce tra le mura domestiche per performare riti e preghiere. Solo dentro le quattro mura esiste la Legge, perché la casa è il luogo dove si esercita la dimensione rituale che fa esistere la Legge. E solo all’ombra della Legge esiste una comunità (anche se questa non si dà se non in forme del tutto domestiche), e quindi un individuo. Ergo: fuori di casa, l’individuo non esiste più. O comunque passa ad essere direttamente un individuo diverso.
Per questo, sulla barca, il piccolo Edgardo diventa letteralmente un’altra persona. E Bellocchio ce lo fa notare con due lunghissimi primi piani di lui impassibile. Dopodiché, la possibilità che esista un “fuori” della Legge gli balena innanzi agli occhi allorché fa esperienza, durante il viaggio verso Senigallia prima e Roma poi, in modi inconfondibilmente onirici, dei segni di una religione sconosciuta: il cristianesimo. Il sospetto che i segni, che sono gli strumenti del rituale, possano venire desostanzializzati, comincia ad emergere, rinforzato dall’amico Elia (“bisogna farsi furbi: tu fai quello che ti dicono anche senza crederci, così esci prima”) e soffocato dalle perpetue e dai preti che ripristinano invece una sostanzialità alla dimensione rituale, con il crocifisso che diventa di fatto un quadrifoglio portafortuna: tu prega, e vedrai che le cose vanno come devono andare.

Ma Dio, per Edgardo (che prega per la salvezza di un bimbo malato che muore lo stesso), non è il garante della consistenza di un universo chiuso, retto da una Legge il cui perimetro letteralmente spaziale è dettato dalla trasgressione. Quello di fatto è il Dio che vigeva in casa sua, il regno della legge materna, che guarda alla trasgressione non come a quel doppiofondo inseparabile della Legge che è, ma letteralmente come a un’invasione dall’esterno: il film comincia con la one night stand con il soldato austriaco da parte della serva che di nascosto battezzerà Edgardo: il doppio femminile della madre che la madre si rifiuta di riconoscere. Ma in Vaticano Edgardo non è che trovi qualcosa di tanto diverso: è sempre un nascondersi nelle gonne di chi detiene la Legge. In fondo, sempre Legge materna è: al Papa di Dio non interessa quasi niente (se non quando è troppo tardi, sulla Scala Santa, appena prima della capitolazione), in compenso lo vediamo pregare due volte la Vergine Madre, compreso quando è in punto di morte. Come la Legge vige solo in casa propria (per l’inquisitore Feletti non esiste il codice legale dello Stato, ma solo il diritto ecclesiastico), ognuno è Re a casa propria: in trasferta, anche la potentissima comunità ebraica romana, in contatto con mezzo mondo (Rothschild compresi) deve inginocchiarsi e strisciare. Tra la Chiesa cattolica e la comunità ebraica romana tutta questa differenza non c’è: sono semplicemente gang in lotta in una turf war i cui confini, grazie ai media, cominciano a essere globali, ma tanto l’una quanto l’altra cominciano e finiscono con la dimensione rituale che di entrambe circoscrive l’identità. Per forza poi il Papa comincia a sospettare che non ci sarebbe nulla di strano se venisse circonciso. Più di una volta, Rapito collega in montaggio parallelo i riti degli uni e riti degli altri, sancendo l’identità formale di due gruppi religiosi che, pur rivendicando identità diverse, si riducono a zone di vigenza di una Legge particolare.
Ma a differenza del Papa, a Edgardo di Dio interessa eccome. E ciò che più conta, gli interessa di Gesù. Ricevuta appena uscito di casa la promessa di una religione in cui la dimensione rituale è finalmente desostanzializzata insieme ai segni che le fanno da strumento, non è la Chiesa che soddisferà quella promessa, ma l’utopia di un Cristo davvero risorto, che scorsesianamente prende e si allontana dalla croce. È, quello, un Cristo che redime innanzitutto l’impotenza del Padre, ridotto a garzone di bottega (del resto, avesse avuto Lepori un garzone, Edgardo non sarebbe stato mai battezzato) da una madre che se ne sta rintanata in casa nella sicurezza che i compartimenti delle diverse Leggi sono stagni e impermeabili, e che manda lui a sbattere, fuori casa, contro quella impermeabilità, rincorrendo una conciliabilità tra dentro e fuori che è strutturalmente impossibile in un mondo fatto di parrocchiette che non si parlano né vogliono mai parlarsi davvero. Il cinema di Bellocchio è pieno di figure paterne (da Moro al padre biografico del regista stesso in Marx può aspettare) utopicamente incaricate di superare le impasse della Legge materna con un universalismo davvero cristiano, quello che l’orizzonte ristretto delle parrocchiette lo supera con l’unico universalismo davvero degno di questo nome: quello che risolve e supera la Legge sul suo piano topologico, restituendo alla luce del sole, anziché tagliarlo con la finzione dell’identità, l’intrico inestricabile tra il dentro e il fuori della Legge. Dopo essere sceso dalla croce, il Cristo di Bellocchio esce dalla chiesa. Anche lo Stato può farsi carico del potenziale utopico del Padre: cos’è la breccia di Porta Pia se non la promessa di un diverso nodo tra il dentro e il fuori? Ma, come il Padre, lo Stato è debole, e anziché farsi agente di un universalismo autenticamente cristiano in cui le divisioni tra le parrocchiette vengano superate, è quanto mai suscettibile di farsi parrocchietta a propria volta, sulla scorta dei propri rituali (come quello inutile del tribunale, infatti ricucito via montaggio parallelo con i riti delle altre parrocchiette). Lo dimostra l’ottusità del fratello soldato, che cerca di condurlo via da una parrocchietta (la Chiesa) per farlo tornare all’altra (la Casa).

Fedele all’universalismo autenticamente cristiano che vede nel Cristo la possibilità di redenzione del Padre (e cioè della Legge) desostanzializzando il rituale e con ciò revocando la topologia stessa della Legge, Edgardo non sa cosa farsene dell’unire una parrocchietta con l’altra. L’unico vero universalismo è quello che, revocando la divisione netta tra dentro e fuori, crea una divisione dentro-fuori all’interno del dentro stesso, qualunque esso sia. Il modo giusto per essere fedele al Papa è essere ambivalenti verso di lui: adularlo e aggredirlo al tempo stesso. Anche quando si tratterà di traslare il cadavere – scena geniale che fa il verso, rivoltandone completamente i presupposti, al finale de Il conformista di Bernardo Bertolucci, cineasta da cui Bellocchio è ossessionato almeno quanto è ossessionato dal proprio stesso cinema.
Del resto, il protagonista di Bertolucci era un nevrotico. La pressoché totalità dei personaggi di Bellocchio è, altresì, nevrotica. Nevrotica era l’altra incursione risorgimentale del cineasta piacentino, Nel nome del padre. Non però Edgardo Mortara. Mortara è schizofrenico, non nevrotico: è il modo con cui Bellocchio si libera da se stesso e al contempo dal suo doppio Bertolucci, che alla nevrosi c’è arrivato partendo dalla schizofrenia (Partner). Come confermano i primi piani sulla barca citati all’inizio, appena messi i piedi fuori di casa (un luogo che coincide con la Legge che coincide col rito) Edgardo è due persone in una. Non è affatto un bambino che reprime l’amore materno perché la Chiesa gli ha fatto il lavaggio del cervello. L’incontro in Vaticano coi genitori è chiarissimo in questo senso, con l’abbraccio finale completamente privo di transizioni con l’atteggiamento robotico di un secondo prima: Edgardo passa da una personalità all’altra come la luce si accende spingendo un interruttore, non è affatto il riaffiorare alla superficie di un qualche rimosso.
Un’ambivalenza schizofrenica simile a quella dimostrata innanzi al Pontefice, Edgardo la dimostra innanzi alla madre in punto di morte, tentando di battezzarla non per unire le parrocchiette (a che pro, visto che la madre sta morendo?), ma per ribadire l’indifferenza e non-sostanzialità dei segni. Ma davanti al prevedibile rifiuto da parte di lei, la sconfitta personale del soggetto-Edgardo si ribalta in vittoria sul piano spaziale (e cos’è la schizofrenia se non una nevrosi spazializzata in due soggetti avulsi l’uno dall’altro?): l’ultima inquadratura è un totale dell’interno di casa Mortara, che sullo sfondo si apre su due stanze: una è un corridoio che a sua volta conduce fuori, con Edgardo lì seduto, l’altra senza sbocchi verso l’esterno e con la madre morta nel letto. Con l’ultima inquadratura, la topologia interno-esterno viene effettivamente sovvertita, al di là dei soggetti del film.
Per questo, il livello in cui va cercato l’universalismo cristiano di Rapito è ulteriore rispetto alla storia mostrata: è invece quello dello stile del film. Già da qualche film in qua, e in maniera ormai inequivocabile ne Il traditore, Bellocchio è evidentemente stanco di dover esibire il proprio stile distintivo, preferendo invece celarsi dietro l’altro da sé (televisione inclusa, con Esterno notte). In Rapito, l’apparato stilistico tipico di Bellocchio (deformazione della recitazione degli attori con deliberato squilibrio delle esplosioni drammatiche; camerawork e montaggio tesi a esasperare la temperatura drammatica in senso molto letteralmente scenico-teatrale anche in assenza di dramma) esibisce con molta evidenza una scollatura: Bellocchio sembra ricorrervi solo a intermittenza, come premendo un interruttore, passando sopra a evidenti forzature (l’invocazione di aiuto nel cortile in carrozza). È però decisivo che una medesima esitazione e ambivalenza sia percepibile, in Rapito, nel ricorso al melodramma, anche nelle sue forme più bassamente e ottocentescamente feuillettonistiche (il terrificante bambino malato di cuore Simone; le derive labirintiche di plot come quelle del flashback di Lepori all’interno dell’a propria volta assai prolissa scena del prolisso: un sonoro schiaffo alla compattezza narrativa. Per non parlare di simmetrie forzatissime tipo il doppio nascondino). È un ricorso, infatti, da un lato obbligato trattandosi di Risorgimento, ma dall’altro esso stesso giocato in maniera estemporanea, intermittente, e senza nessuna coerenza di insieme, coerenza invece ravvisabilissima nel prequel nevrotico gemello di questo film squisitamente schizofrenico: Vincere. Per non parlare del fatto che, nel dialogo tra il padre di Edgardo e il capo della comunità ebraica, il melodramma viene letteralmente sbeffeggiato come mistificazione mediatica.
Come nel caso di Edgardo, due scollamenti, due divisioni interne all’interno stesso (quella tra Bellocchio e il proprio brand stilistico d’autore; quella tra il film e il melodramma), finiscono per fare un’universalistica unità. L’universalismo autenticamente cristiano non è l’unire le parrocchiette, ma è il dividere la divisione.