Vale la pena aggiungere sul film italiano in concorso un’altra breve nota.
Riassumiamo i fatti: nel 1858 a Bologna le autorità vaticane prelevano, in casa di una famiglia ebrea, il piccolo Edgardo che, in fasce, sarebbe stato battezzato dalla sua balia. La Chiesa, nonostante la mobilitazione dell’opinione pubblica e della comunità ebraica internazionale, si rifiuta di restituire il bimbo ai genitori statuendo che debba crescere con un’educazione cattolica. Come riportato dalle cronache dell’epoca (lo apprendiamo da Wikipedia) il caso giunse alla ribalta sia in Italia sia all’estero. Nel Regno di Sardegna, Stato allora fulcro del processo di unificazione nazionale italiana, sia il governo sia la stampa citarono l’accaduto per rafforzare le loro rivendicazioni alla liberazione delle terre italiane dal potere temporale dello Stato Pontificio. Le proteste furono appoggiate da organizzazioni ebraiche e da figure politiche e intellettuali britanniche, statunitensi, tedesche e francesi; proprio a Parigi l’episodio, unito ad altri atti di antisemitismo messi in atto dalla Chiesa e da personaggi del mondo cattolico, fu lo spunto per la nascita dell’Alleanza Israelitica Universale. Ma le critiche non mancarono anche dai cattolici. L’abate francese Delacouture, docente di teologia, pubblicò sul quotidiano Journal des débats del 15 ottobre 1858 una sdegnata analisi del caso, ove lamentava che il rapimento del fanciullo Mortara era stato fatto “violando le leggi della religione, oltre quelle della natura”.
Con un registro che oscilla tra il cronachistico e il vagamente visionario (tra gli sceneggiatori Edoardo Albinati) il regista parte dalla Storia per pervenire alla metafora, all’analisi quasi psicanalitica dei motivi che attraversano la vicenda, con immagini fortissime nella loro semplicità (Edgardo che, giocando coi compagni, si nasconde sotto la tonaca del papa) o nel loro ricercato effettismo (Cristo che scende dalla croce), con le esangui cromie e le ombre che avvolgono sequenze quasi paralizzate in un inquietante rigor mortis (siamo alla vigilia della presa di Porta Pia, il potere temporale della Chiesa al tramonto), con la figura di papa Pio IX (un Paolo Pierobon di invasata lucidità) paradossalmente diabolica che, nella fermezza dei propri convincimenti («Solo a Dio devo rispondere»), dimostra una mancanza di pietas agli antipodi del vangelo che professa. Un film dell’orrore, a suo modo, che allude trasversalmente all’attualità (dobbiamo specificare?), analizzando un metodo (il titolo è inequivocabile) e un modo (implicitamente o esplicitamente) violento di intendere fede e potere. Curiosa la scelta dell’attore Leonardo Maltese per impersonare l’Edgardo adulto: già Ettore in Il signore delle formiche – film vagamente bellocchiano (lo scrivemmo) – afferma il suo come un corpo attoriale martirizzato; se nel film di Gianni Amelio portava su di sé i segni fisici dell’abuso dello Stato, in questo di Bellocchio paventa quelli sulla coscienza impressi dalla Chiesa.