CARTOLINA DA CANNES 76 – ANATOMIA DI UNA PALMA D’ORO

Uno chalet di montagna, una coppia e il loro figlio: Sandra è una scrittrice famosa, Samuel si divide tra insegnamento e scrittura, il dodicenne Daniel è ipovedente dopo un incidente che gli ha lesionato il nervo ottico. Il corpo di Samuel (da vivo lo conosceremo solo attraverso i racconti) viene ritrovato sulla neve, davanti casa: è precipitato dalla finestra della soffitta. La caduta fisica è quella di un uomo, quella metaforica è di una coppia conflittuale giunta alla resa dei conti: a essere messo sotto processo sarà dunque il menage di Samuel e Sandra; ce lo dicono le foto “vere” che ritraggono i due coniugi dall’infanzia all’attualità, come si susseguono nei titoli iniziali.

Lost in translation
Triet in supremo gioco di ambiguità: la parola innanzitutto, ché Sandra (tedesca) si esprime in inglese (come la Marlene Dietrich di Testimone d’accusa), ma deve deporre in francese (non ho visto l’edizione italiana, auguri) e dietro questi passaggi da una lingua all’altra c’è un lost in translation implicito, una continua interpretazione e rielaborazione di codici comunicativi. Si prenda il caso dell’intervista iniziale a cui la donna è sottoposta e che precede di pochissimo la tragedia: comincia come discorso professionale, prende una piega personale, diventa (forse) lancio di messaggi subliminalmente sessuali.
E la freddezza di Sandra è un dato apparente? Caratteriale? Culturale? Vado a riguardarmi Un grido nella notte di Fred Schepisi.

Il figlio
Ambiguità, si diceva: il testimone più importante non è oculare, perché Daniel, il figlio della coppia, non vede quasi nulla, depone sulla base di un percepire la realtà che va anch’esso interpretato, che determina, come per la lingua, una perdita di dati, un caso alternativo di lost in (sensorialtranslation. Un testimone che è anche parte in causa, che non è certo neutrale, un bambino – intelligente, sensibile –  che, naturalmente, desidera che la madre sia innocente. Un testimone che rende una deposizione controversa, affermando di aver ascoltato una conversazione dall’esterno della casa e che poi, di fronte alla fragilità dell’assunto, corregge il tiro, ponendo la sua posizione all’interno dell’abitazione.
Dubbi che si rinnovano in sede processuale: e se in aula Daniel adeguasse le sue parole alla versione dei fatti che vorrebbe conforme al suo volere (l’innocenza della madre)? Quanto è convinto di quello che dice? Quanto vorrebbe fosse vero? Quanto la sua testimonianza è frutto di un ricordo mistificato dalla sua menomazione? Quanto ritiene essere quella la versione più logica dell’accaduto sulla base del suo personalissimo incidente probatorio (quello sul cane)? Quanto quella deposizione è il frutto di una presa di coscienza dell’entità del dramma familiare come appresa nel processo (momento potentissimo quello in cui ascoltiamo la registrazione del litigio tra i genitori guardando la sua reazione)? Si aggiunga il racconto del dialogo in auto col padre che sottintenderebbe un intento autolesivo di Samuel: quanto questo ricordo è fedele alla realtà dei fatti? Quanto il bimbo lo sovrainterpreta, lo rielabora o lo inventa in favore di una tesi che vuole venga avallata? Quanto, in definitiva, è cosciente Daniel di essere il vero giudice del caso?

Doppiaggio
Ambiguità, si diceva. Anche nel dispositivo del film, perché quelle che lo spettatore vive come flashback sono in realtà ricostruzioni soggettive/collettive: quella del litigio è una traccia audio presentata come prova in tribunale a cui il film associa immagini posticce (mentali, potrebbero essere del figlio, come di qualsiasi altra persona stia ascoltando la registrazione), quelli della conversazione padre-figlio in auto sono ricordi uditivi di Daniel che si traducono in una figurazione plausibile, non a caso “doppiata” dal bambino (Milo Machado Graner, straordinario fino all’inquietante).

Autofiction
Ambiguità, si diceva. Torniamo alla registrazione del litigio. Scopriamo che Samuel registrava le conversazioni con la moglie per un progetto letterario: non si può escludere dunque che quanto ascoltiamo sia una disputa alterata nei toni dallo stesso Samuel per ottenere dalla moglie determinate reazioni da riutilizzare in sede romanzesca. Che insomma questa discussione cassavetessiana sia non solo una realtà già pronta per la finzione, ma che fosse già contaminata da essa. E comunque che il confine tra le due dimensioni sia labilissimo lo sottintende anche la scelta della Triet sceneggiatrice di assegnare i nomi propri degli attori Sandra Hüller e Samuel Theis ai personaggi e di mostrarne le vere foto nei titoli di testa.

La difesa
L’avvocato è anche un amico, forse è innamorato di Sandra (se si rilegge su questa base, la sua frase «non è questione di verità» diventa ancora più significativa) e la sua intima opinione sul caso è (giustamente) impenetrabile dopo che ha abbracciato, per l’ufficio che ricopre, quella del suicidio come versione più utile a far pesare gli esiti del processo dalla parte della sua assistita. Questa impenetrabilità però si arricchisce anche di quel non detto che concerne il rapporto privato con la donna che difende.
Ambiguità, again.

Suicidio?
L’ipotesi del suicidio prende progressivamente piede, si fa via via più convincente:
– un ragionevole senso di colpa di Samuel legato alle circostanze dell’incidente che ha fatto perdere la vista al figlio;
– un precedente tentativo di togliersi la vita;
– le ambizioni letterarie frustrate (la registrazione dei dialoghi con la moglie dice di un’ispirazione al lumicino, cosa confermata dall’assenza di una qualsiasi bozza romanzesca);
– la beffa dell’idea avuta per un intreccio che, ceduta alla moglie, decreta il successo del romanzo scritto dalla donna (e il risentimento lo si sente: nella musica sparata a volume violento per sabotare l’intervista iniziale) [1];
– le parole della conversazione in auto come riportate dal figlio (se si decide di leggerle in quella direzione).
Al suicidio si può credere.
Di più: si può arrivare persino a pensare (esageriamo, ma tutto è lecito) che il marito si sia suicidato in circostanze volutamente indecifrabili per far incriminare la moglie.

Tre persone nello chalet (per tacer del cane)
Qual è il ruolo del cane in questa tragedia? L’animale non ce lo può dire neanche mentendo, ma c’è una sequenza apparentemente bislacca in cui si segue passo passo l’animale dall’esterno all’interno della casa: cosa ci sta dicendo Triet attraverso quel pedinamento? Perché lo colloca proprio in quel punto del film, poco dopo la caduta? Perché (me lo fa notare Giulio Sangiorgio) il cane e Daniel hanno gli stessi occhi, lo stesso sguardo opaco e liquido? È Snoop il prolungamento visivo di Daniel? Cosa ha visto Daniel attraverso gli occhi di Snoop?
Il ruolo del fuori campo, di ciò che non si vede (o non si riesce a vedere), in questo film è decisivo, del resto.

Triet
Triet, per dissezionare questa coppia guarda tanto all’intimismo del family play o del dramma bergmaniano, quanto alla violenza verbale di certo procedurale hollywoodiano, anche se il titolo, mimando Anatomia di un omicidio di Preminger, mette l’accento su quest’ultimo, ribadendolo nella stessa anomala durata e nello stesso ambiguo spettro: un’altra coppia – con un cane – è sotto processo mediatico (e anche se lì l’imputato a processo è il marito, anche in quel caso è la moglie l’oggetto dello sguardo giudicante e moralizzatore).
Fa di più:
– inventa un baricentro mobile della narrazione (alternandolo soprattutto tra madre e figlio) che determina un riflesso oscillare dell’opinione spettatoriale poiché, esponendo il progredire del convincimento dei suoi protagonisti rispetto al caso, riformula di continuo i presupposti sui quali fondare ragionamenti e ipotesi;
– usa le esasperazioni analitiche dell’indagine e del processo (il bicchiere di vino, per esempio) per adombrare quelle che, nel menage, finiscono per ingigantire le inezie, rendendole questioni cruciali;
– fa esercizio di manipolazione del pubblico costruendo, nel generale realismo, una figura di pubblico ministero aguzzino e sgradevole (l’antidoto alla mitezza del difensore), un inquisitore volontariamente caricaturale e “di genere” che ci fa parteggiare per Sandra per reazione e aprioristicamente;
– spingendo lo spettatore ad assumere posizione rispetto a quanto la storia racconta, sottintende che lo stesso vale per i personaggi: essi devono neutralizzare la naturale incertezza degli eventi facendo una scelta di campo che li aiuti ad andare avanti; questa della scelta è una logica che si impone anche nell’esercizio della Giustizia che, al di là della dissezione analitica che può fare dei fatti, nel conflitto di interpretazioni arriva comunque a preferire la versione più credibile, che non coincide necessariamente con la verità. La Dike mitologica, del resto, è bendata (Triet: «il tribunale è il luogo dove la nostra storia non ci appartiene più, dove è giudicata da altri, che devono ricostruirla con elementi sparsi, ambigui. Diventa necessariamente finzione, ed è proprio quello che mi interessa»).
Grande scrittura (Triet e Arthur Harari) che investe temi contemporanei – senza sbandierarli, ma implicandoli con una metodicità mimetizzata che ha del prodigioso -, superba gestione della messa in scena (taglio paratelevisivo, freddo, piatto, anticalligrafico, nessuna musica extradiegetica), attori perfetti (Sandra Hüller merita ogni premio).