CARTOLINA DA CANNES 76 – ALLA CORTE DI FRÉMEAUX

Rieccoci sulla Croisette a dire di un Festival che sempre di più, parola di Frémeaux, non vuol farsi sfuggire niente di importante e che, a costo dell’ipertrofia del programma (quest’anno la kermesse dura un giorno in più), mette in campo i suoi pezzi da novanta comprimendoli quanto più possibile e cercando la quadra di una proposta che nella sua caoticità ha l’unica ragione d’essere. Perché, me ne convinco sempre di più, questa confusione è Cannes, questa disorganizzazione elevata a metodo è Cannes, questi ritardi in accumulo until the end of the day, questa strada punteggiata da palme altissime in cui non riesci a muoverti, tra inferriate e poliziotti che ti sbarrano la strada, masse in movimenti opposti, automobili che procedono un metro al minuto (ma qui poca solidarietà) sono Cannes. Il giorno in cui ci sarà calma sarà quella del cimitero, la morte del Festival, ché invocare diete dimagranti significherebbe irriconoscibilità, sperare in nuove politiche di accredito vorrebbe dire file contenute e poca massa a fare scenografia umana, a restituire il senso dell’evento.
Non sarebbe Cannes.
Lo dico ogni anno: a Venezia non si perdona un grammo di polvere sul red carpet, qui si viene lasciati alla porta con il biglietto regolarmente ottenuto in mano e il ritornello è sempre lo stesso: nous sommes à Cannes. Come dire, vorrai mica lamentarti? Sei nell’ombelico del mondo, balla se vuoi ballare, altrimenti reste à la maison.
Noi, ovviamente, balliamo. Mica è un caso se – tra madonne e cristi che volano come le lucciole che brillano nelle tenebre – al momento della chiusura della immutabile sigla – l’animazione della scalinata del red carpet – l’apparizione del festivaliero logo dorato in campo nero viene puntualmente (puntualmente) accolta dall’applauso scrosciante. Perché d’accordo bestemmiare, ma nous sommes à Cannes, pas à la maison. Et heureux d’être là.
E allora quale apertura migliore se non il film di Maïwenn? Che, rievocando le gesta dell’eponima Jeanne du Barry (la stessa regista), figlia del popolo che usa il suo fascino per uscire dalla sua condizione e che diventa l’amante favorita del re Luigi XV (Johnny Depp), mette in scena lo sfarzo irrazionale, la grandeur, le insensatezze della corte di Versailles, l’apoteosi della monarchia, dell’orgoglio, del potere, della superiorità, della megalomania, dell’egocentrismo. Ok, ci siamo capiti. Sul film (goduto) ovviamente torniamo a tempo debito, qui solo broccati, merletti, cipria che si disperde nell’aria.