Quello di Sandra è un mondo precario che la donna percorre, zaino in spalla, da un punto all’altro, una dimensione nella quale la donna si è ritagliata una sua fittizia certezza (nessun amore a turbarla) e dove nasconde i suoi stati d’animo; l’incontro con Clément – già amico del marito morto, un’attrazione sottopelle esistente da tempo e mai fatta emergere – ricombina il labile schema interiore, ne ridisegna i termini alla luce di una riscoperta passione amorosa e sessuale. È un risveglio, ma è anche un terremoto che smuove un equilibrio delicatissimo di una vita fatta di impegni ponderosi: tirare su Linn, una figlia senza padre (l’attaccamento istantaneo della bambina per Clément dice moltissime cose: la sua zoppia immaginaria segue al primo abbandono dell’uomo); curare Georg, l’anziano papà che si avvia a morire nel contesto più inevitabile e deprimente che i nostri tempi conoscono; esercitare la sua professione di traduttrice (un lavoro sintomatico, un altro modo per nascondere il suo sentire personale: dietro le parole degli altri). E infatti la fragile armatura cede, il corpo molle dell’anima si espone, l’instabilità della relazione (Clément è sposato) rende instabile anche la donna, il fantasma della morte del padre assume corpo assieme all’indifferenza del genitore nei suoi confronti (Georg non ne ricorda mai il nome, vuole solo la sua compagna, non la nomina neanche tra le sue persone preferite).
È un nodo centrale questo della paternità, ancora una volta legato a un sottile gioco di specchi che da Sandra si riverbera sulla figlia: così se all’inizio il padre di Sandra non riesce ad aprire la porta di casa – è un genitore disorientato e già perso -, nell’ultima scena al Sacré Coeur Clément indica alla piccola Linn dove si trova la loro casa, con questo sembrando assumere il ruolo di di guida, di padre putativo. Credo sia in questo il massimo talento di Hansen-Løve: ricamare le sue storie di notazioni quotidiane attentissime, implicitamente e mai dichiaratamente rivelatorie, dettagli umani che rendono naturalmente risvolti sentimentali, sensazioni, sofferenze grandi e piccole dei personaggi. Si noti come la regista rende i termini attuali del rapporto di Sandra col padre: in quell’ammettere che il genitore oggi vive nei suoi libri, nella biblioteca – fatta di volumi scelti e ponderati – che sintetizza una vita (e che non può essere buttata via, c’è un cuore che batte tra quelle pagine). O nella sonata di Schubert che Georg amava e che oggi rifiuta: quando Sandra la riascolta – da sola sull’autobus – è come se dialogasse con il padre “vero”, quello che non c’è più. Lacrime. E ancora: quanto amore nutre l’autrice per i suoi personaggi? Quanta attenzione dispensa per ciascuno di loro (la madre Nicole Garcia è quasi un film a sé)? C’è qualcosa di letterario in questo, di elegiaco, di meditato, eppure ogni scena sembra scaturire dalla semplice osservazione, quasi che fossimo di fronte a un documentario, al racconto dal vero di una fase di passaggio di una donna che sta perdendo qualcosa di importante e che non sa ancora se ne sta acquistando un’altra.