CARTOLINA DA CANNES 75 – PALME E GIURIE

Breve nota sul contestatissimo palmarès cannense che ha messo, almeno qui in Italia, sul banco degli imputati la giuria presieduta da Vincent Lindon.

L’ho scritto tantissime volte, lo ribadisco qui: il problema (se di problema si vuol parlare) di un verdetto contestato non sta nella composizione della giuria che l’ha emesso. Perché questa è per definizione – ontologicamente mi viene da dire – un aggregato diabolico che solo per caso, per azzardo, per partiti presi in modo anche autoritario, può arrivare non dico a un palmarès giusto (non ne esiste uno giusto in assoluto), ma coerente, almeno all’apparenza. Basta partecipare una volta ai lavori di una giuria (non rileva quanto importante sia la manifestazione) per capire che dalla discussione uscirà fuori qualcosa di imprevedibile, compromissorio, mediamente (e non entusiasticamente) accettato da tutti. L’unanimità è una chimera, la logica seguita nella discussione impossibile da intuirsi all’esterno. Non è questione, dunque, di maggiore o minore competenza (ché a volte la sensibilità perviene a intuizioni migliori), non è riempiendo il consesso giudicante di cineasti (che mica sempre vanno al cinema) o di intellettuali che si arriverebbe a verdetti più accettabili. Anzi, giurie siffatte, con ego spropositati a confronto (e in inevitabile contrasto, figuriamoci), potrebbero prendere strade anche più tortuose e perverse.

Io li ricordo bene i fischi che accolsero il Leone d’oro a Rosencrantz e Guildestern sono morti di Tom Stoppard, verdetto pienamente rivendicato dal presidente di giuria Gore Vidal per il quale, ipse dixit, «l’autore di un film è chi lo scrive». Quale quadratura migliore al suo teorema di un premio a un film scritto e diretto dallo stesso drammaturgo autore della pièce originale? Polemica infinita quella che seguì, soprattutto l’aver preferito il (bellissimo, ma qui non rileva) film di un regista esordiente (e mai più operante al cinema) allo Scorsese celebratissimo di Quei bravi ragazzi a cui, in piena coerenza col ragionamento, fu dato il premio alla regia.
Hai capito gli intellettuali?

Detto questo e tornando a bomba sul verdetto cannense, la seconda palma a Ruben Östlund, dopo il trionfo di The Square è troppa grazia? A mio parere sì, lo è.
È quello di Lindon & C. un verdetto assurdo? No, assolutamente no.

Perché? Perché, messo in saccoccia il gusto personale, The Triangle of Sadness (che, diviso in tre capitoli, esordisce con un primo molto bello e promettentissimo) è un film che è piaciuto. E mica poco. La proiezione stampa alla Debussy alla quale ho assistito si è chiusa con applausi scroscianti. La stampa americana ha alzato i pollici, il britannico Telegraph pure. In Francia Positif (nella persona di Michel Ciment, non di un suo galoppino) ha dato il massimo dei voti. Dirò di più: uscito in sala, il film di Östlund avrà successo, piacerà anche al pubblico. E sarà protagonista della stagione dei premi.
È ovvio che vorremmo riconosciuti i film che piacciono a noi (a me), ma, mettiamoci l’animo in pace, questo può avvenire come non avvenire, ma ciò che è certo è che non sarà mai una questione di giustizia, di estetica o di valore, salvo i casi rarissimi di unanimità (a volte solo rivendicata). Sarà invece più probabilmente frutto di mere contingenze. Sbaglio? Entra in una giuria, cerca di imporre il tuo punto di vista, fammi sapere.