CARTOLINA DA CANNES 75 – MARTONE IN CONCORSO

Napoli, sembra dirci Martone con questo suo ultimo film, non è riformabile. Il che è, allo stesso tempo, una notizia buona e una cattiva.
Buona perché in virtù di questa irriformabilità Napoli può ancora a buon diritto candidarsi come capitale ideale del terzo mondo. È dal Cairo (e prima ancora, dal Libano) che arriva Felice, il protagonista della storia che Martone adatta da un romanzo di Ermanno Rea. Più di trent’anni prima, Felice lasciò Napoli, la madre e un amico dell’adolescenza che fu più di un amico. Il suo ritorno è benintenzionato: verso il passato e l’opaca storiaccia che lo costrinse ad andarsene, coi quali Felice vuole finalmente fare i conti, ma anche verso il suo famigerato rione Sanità, che Felice è volentieri disposto a migliorare attivamente.
Nel suo quartiere, dice Felice, “tutto è ancora come prima”. Meno popolato, forse, meno chiassoso, sicuramente più multietnico, ma in ogni caso un tessuto urbano fatto di punti che non diventano mai né una linea né un piano (da cui l’impressione labirintica), ma che possono solo ammassarsi, tendendo talvolta a darci il miraggio di una forma, ma solo con una forza quantitativamente identica a quella, contraria, che tende alla dissoluzione, alla disgregazione. Come tutti, Felice si lascia volentieri risucchiare in questo spazio ancora unico al mondo, e il film con lui: per restituirlo sullo schermo, a Martone bastano un insieme di brevi scene che si appoggiano discretamente su di un’osservazione tranquillamente descrittiva. Scene che si accalcano nei vistosi spazi lasciati vacanti da una narrazione ridotta a una spigolosa geometria western (genere esplicitamente e giustamente evocato anche nei dialoghi, perché di questo si tratta: dal ritorno dell’eroe solitario in un’area che non vuole saperne di tranciare netto tra civiltà e wilderness, in giù): a chiudere l’essenziale poligono edipico formato da Felice, la madre e l’amico, c’è l’anziano amico della madre, padre putativo che Felice poteva avere ma non ha avuto (indice della casella vuota della paternità, che Felice prova invano, e ingenuamente, a riempire occupandola lui stesso).
Martone restituisce una città in cui non si finisce nemmeno di pronunciare la parola “epifania” (naturalmente carnale, perché cristiana, come ha scolpito nel marmo Rossellini una volta per tutte) che risuona, accompagnandola, la parola “entropia”. Questa consapevolezza consente a Martone di regolare i conti una volta per tutte con il cliché della teatralità della sua città: la sua onnipresente sovrabbondanza sensoriale la fa essere non un teatro, ma la promessa, in ogni suo punto, di diventare scena teatrale. Promessa frustrata e rinviata, sempre, nel momento stesso in cui emerge. Non è un caso se l’unica scena in cui il film percorre la strada di un regolare sviluppo drammatico, dunque l’unica scena davvero teatrale del film, protesa al di là della tendenzialmente breve durata di ogni sequenza, è quella del confronto con l’amico, confronto a cui Felice viene condotto bendato e che quindi non possiamo collocare geograficamente: a rigore, potrebbe anche non aver avuto luogo a Napoli.
In Europa, si sa, il teatro e la modernizzazione borghese sono andati di pari passo, soprattutto nel diciannovesimo secolo. Facendo di Napoli la sede di un onnipresente teatro sempre annunciato e mai arrivato, i cui contorni comunque non rinuncia a tracciare con impressionante precisione figurativa, Martone afferma, in pieno stile “postcolonial”, che il terzo mondo di cui Napoli è da sempre uno dei principali hub globali può avere un’identità piena e riconoscibile, da costruire e rivendicare coscientemente e persino orgogliosamente sulla scorta dell’incompatibilità rispetto a ogni modernizzazione. E questa è la bella notizia.

Quella cattiva è che l’ottimismo degli anni Novanta non è più possibile. Nostalgia è, molto evidentemente, il fratello gemello de L’amore molesto, e più precisamente la sua versione maschile. A guardare oggi film italiani di quel decennio (come quello, come La balia, come Aprile, come molti altri) ci si accorge di un ottimismo riformista di cui oggi non è rimasta la minima traccia. Per Martone, ciò andava di pari passo con la fede in un soggetto femminile capace di andare al di là delle misere dualità maschili: molto evidentemente in Teatro di guerra, ma in nuce senz’altro già ne L’amore molesto, film dove una possibilità di autocoscienza femminile che si autopsicanalizzava attraverso le viscere delle città veniva positivamente affermata. In Nostalgia, il soggetto femminile sparisce: la madre muore quasi subito, e a rimanere sono solo maschi che, davanti all’eterno ritorno del primitivo quale conseguenza dell’irriformabilità, non sanno fare altro che amministrarlo maldestramente, mediocremente. (l’unica eccezione, il prete, sinceramente ed efficacemente riformista ma demascolinizzato per statuto, non fa che confermare la regola).
Mancando il femminile, manca il soggetto capace di impossessarsi coscientemente dell’irriformabilità. Abbiamo così a disposizione una consolazione in meno; tuttavia, presentandoci nuda e cruda la contraddizione tragica, spogliata di ogni dramma, tra ottimismo della volontà e un pessimismo illocalizzabile ma verso cui fa segno ogni pietra, ogni motorino, ogni cortile, Martone ci ricorda che è comunque quella la direzione da percorrere, quello il nodo da sciogliere.