Se c’è un autore che è corrisposto fin dai suoi inizi al cliché per cui il nuovo eroe della modernità sarebbe quello senza qualità, senza volto, senza identità, questo è Jerzy Skolimowski. Già dagli anni Sessanta di Rysopis, Il vergine etc., l’indeterminazione dell’eroe andava di pari passo con una cineticità scomposta ma di rara forza, di un genere analogo a quello che un John Boorman renderà compatibile con un cinema più istituzionale: il movimento scivola fuori dai cardini e diventa indomabile, immune dai tentativi del controllo del soggetto, e che anzi esce ormai completamente e letteralmente al di fuori del soggetto, e dunque ormai definitivamente al di là delle nevrosi e del loro tira-e-molla tra corpo e spirito. Se è vero che un po’ tutte le nouvelles vagues del secolo scorso hanno lavorato su un dinamismo di questo genere, quello di Skolimowski è assolutamente unico, perché le accelerazioni create da montaggio, mise en scène etc. sono come impastate in un’inerzia al limite della catatonia. Lo stesso occhio registico da un lato sa creare come quasi nessun altro un senso di movimento, e dall’altro si abbandona a una passività al limite della pigrizia. Una passività pressoché animale.
Era dunque nelle cose che Skolimowski, dopo i pedinamenti catatonici- con-guizzi di uomini svuotati di tutto tranne che della forma minima dell’umanità in Quattro notti con Anna e Essential Killing, approcciasse Au hasard Balthazar di Robert Bresson: anche in EO il protagonista è un asino che, sballottato da un capo all’altro d’Europa, vittima inerme dei mali e dello sfruttamento perpetuo del mondo, li subisce senza fiatare, ma lasciandoci intendere che questa apparente arrendevolezza è la chiave per accedere a una forma di abitare il mondo baciata dalla grazia divina. Potremmo chiamarla, con Deleuze, “automa spirituale”, ma si tratta, in termini meno altisonanti, semplicemente di una qualità di movimento diversa da quella del movimento empirico immediatamente percettibile. È sulla restituzione sullo schermo di questo tipo di movimento che si concentra la stragrande maggioranza di un film pressoché sprovvisto di dialoghi e di una narrazione degna di questo nome, nel seguire le mobilissime peripezie dell’eponimo e onomatopeico asino protagonista. Stacchi bruschi di montaggio, obiettivi che forzano oltre l’impossibile la volumetria degli oggetti profilmici, elicotterate a picco sulle foreste, tarantolate riprese in notturna, viraggi selvaggi… cinema puro, senza se e senza ma; l’inventiva scatenata degli avanguardistici anni venti del secolo scorso aggiornata al bestiale capitalismo globale di quelli di questo secolo; una delle esperienze cinematografiche più forti da molto tempo a questa parte.
Come accennato poc’anzi, EO tiene insieme il ristagno nell’inerzia, e il passaggio perpetuo da strappo a strappo, da conflitto a conflitto, da contrasto a contrasto: tra il brutale pestaggio dell’animale da parte di un gruppo di tifosi inferociti e il suo recupero motorio in una clinica veterinaria specializzata, Skolimowski infila una lunga sequenza dedicata alle evoluzioni di un cane-robot meccanico, da più angolazioni, con frequenti cambi di ritmo. Perché? Per pura analogia contrastiva: il corpo, anche quello animale, come una quasi-macchina che ricompone da sola ogni frantumazione; ciò che è in eccesso rispetto a questa meccanicità è, classicamente, lo spirito, che per Skolimowski vuol dire “il movimento”, ossessivo oggetto e fine delle sue cure registiche. Tematiche vicine a una certa mistica cattolica (come sempre più spesso nelle sue opere), cosa che l’autore polacco non fa nulla per nascondere: l’ultimo personaggio che incrocerà la parabola del quadrupede sarà un giovane sacerdote che è un po’ la quintessenza dell’eroe skolimowskiano per la sua inconcludente indolenza che lo tiene perennemente al di qua di qualsiasi identità stabile e che (altro topos facilmente rintracciabile nella maggior parte dei film del regista) lo porta a venire attirato magneticamente da una donna materna che si prenda cura di lui come caso disperato. Lo stesso asinello comincia la propria via crucis con la separazione dal simil-eden circense che condivideva con una giovane che lo teneva nella bambagia. Ovviamente, nell’universo iperdinamico di Skolimowski nemmeno l’eden è statico: il circo viene ripreso da una cinepresa frenetica, con luci stroboscopiche intermittenti che fanno alternare vorticosamente movimento e immobilità, prima che questa sintesi paradisiaca tra i due opposti venga persa e rincorsa lungo tutto il film. In definitiva, EO precisa l’eroe skolimowskiano come zona di indeterminazione non solo tra identità e assenza di identità, ma anche tra uomo e animale. Poco dopo essere stato strappato da un grembo paramaterno che, in Skolimowski, è sempre l’unico approdo verso cui gravitare, l’asino protagonista è al centro di un serrato confronto con un cavallo: come nel match tra il pugile e il suo doppio evanescente in Walkower, l’unica soggettività possibile è l’ombra di se stessa. Il rovescio, vuoto, dell’identità.