A essere interessante del film di Luhrmann è innanzitutto la prospettiva scelta per raccontare il personaggio: la cavalcata quasi onirica del suo manager pigmalione Tom Parker che, sul letto di morte, evocando l’incontro con la futura stella, racconta come ne abbia di fatto controllato ogni frangente della carriera. Parker decide tutto, amministra tutto, asseconda Elvis quando serve, si incavola quando Elvis fa di testa sua (lo show di Natale che non rispetta la tradizione), lo rimette in riga a suon di promesse, ne tarpa le ali quando decide di monumentalizzarlo con il residency show – imprigionando The Pelvis a Las Vegas – e passare all’incasso. Nel frattempo si inventa un concerto via satellite che, evitando quel tour mondiale che non era da farsi (nessuno sapeva che Parker fosse un immigrato senza passaporto), diventa da un lato un unicum storico, dall’altro un evento-modello avveniristico. Figura faustiana quella tratteggiata da Tom Hanks: creatore geniale di Elvis, Parker ne è anche il suo disgustoso distruttore, colui che, intuendone da subito il potenziale, mise prima l’artista nelle condizioni di germogliare, poi di appassire. Il sottotesto continuo del film sembra essere: se il mondo ha avuto Elvis lo si deve a lui, a questa sanguisuga a suo modo paterna. A dire che non c’è una storia alternativa di una star chiamata Elvis Presley: l’unica è quella in cui il protagonista alla fine paga con la vita il suo successo. O così o niente Elvis del tutto («Siamo uguali, io e te»). Senza strega cattiva non ci sarebbe Biancaneve.
Luhrmann, insomma, racconta Elvis attraverso il metodico, inflessibile, spietato processo manipolatorio di Parker, il tycoon che porta un ingenuo e talentuoso ragazzo del Sud a diventare un mito. Una specie di arringa immaginaria in cui il Colonnello, nel tentativo di assolversi, pone in piena luce le sue colpe. Ma anche i suoi meriti. Meriti che non sono umani, e forse nemmeno artistici, attenendo di fatto allo show business, il tritacarne che massacrò Elvis. Lo stesso tritacarne che, però, ne ha fatto una stella intramontabile.
È un’intuizione straordinaria, perché quell’argomentare, rammentare, commentare, travisare ad arte i fatti diventa la base del viaggio per immagini – l’unico possibile per il regista australiano – attraverso la vita di Elvis: i voli pindarici di Parker sono quelli di Luhrmann che, tenendo dritta la barra cronologica, si permette digressioni, aperture di parentesi, salti temporali risucchiati in vertigine, con quella vividezza e quell’inventiva visiva che gli conosciamo. In questo senso la serie Netflix The Get Down (forse il capolavoro del regista) è il riferimento primo poiché già in essa si parlava del rapporto tra arte e business e del prezzo da pagare per il successo; già lì si mescolavano repertorio e ricostruzione. Elvis, allo stesso modo, è un resoconto tutto per immagini, di grande leggerezza, ma nessuna superficialità, con un lavoro di montaggio (Matt Villa, Jonathan Redmond) che quest’anno nel cinema U.S.A. non credo abbia eguali (Academy avvertita) e che fa andare il film a cento all’ora. Si prenda l’epifania black del musicista bambino (quasi una possessione) raccontata come una favola allucinata (e subito il pensiero a Ballroom). O l’efficacia con la quale Luhrmann restituisce l’energia erotica del personaggio, soprattutto nella temperie (sullo sfondo della vicenda biografica ci sono gli sconvolgimenti culturali dell’epoca, la fine dell’innocenza dell’America): Elvis per Luhrmann è naturalmente The Pelvis, non solo una star della musica, ma un corpo che esprimeva una tensione sessuale che si riversava nei salotti americani (l’adolescente, senza filtri, la percepiva tutta e ne godeva; l’adulto, strutturato, ne era spaventato): «l’unico artista di sesso maschile che in vita mia mi abbia causato una reazione di tipo sessuale: non si trattava di vera eccitazione, piuttosto di un’erezione del cuore, quando lo guardavo impazzivo di desiderio e invidia e venerazione e autoproiezione» scriveva Lester Bangs. Ecco, Baz Luhrmann riesce a restituire proprio questa cosa qui, il suo cinema (camp in senso amplissimo) sa fare i conti con quell’erotismo trans-sessuale (e con quel linguaggio musicale trans-razziale e quel proporsi trans-classista – le origini umili sempre rivendicate -), con quel dimenarsi ribelle, pre-punk.