E rieccoci nel magico mondo di Cannes. Dopo la prima edizione postpandemica, che dietro il rigido protocollo nascondeva voglia inaudita di orge di folla (puntuali come gli happening di Frémaux al Certain regard), questa edizione 2022 (la settantacinquesima, come ci ricorda il bollino finale sulla sigla, seguito da un plìn sonoro che, chissà perché, fa ridere tutti) mette da parte qualsiasi alibi e dà sfogo alla voglia di cinema. La mascherina è sempre consigliata – negli annunci, dalle maschere di sala che la indossano (con evidente voglia zero) – ma è qualcosa di meno di una formalità: nessuno la indossa. Anzi se lo fai (io, fino a quando le luci non si spengono e le voci – soprattutto – non si tacciono) quasi vieni guardato con sospetto («Cos’hai da nascondere?» dicono gli sguardi dolaniani che ti accusano come all’inizio di Laurence anyways – ma questa è un’altra storia -). È un tale liberatutti che l’ineffabile Thierry quest’anno permette persino i selfie sul tappeto rosso. Cioè, li tollera, del tipo: non voglio fare il nazi che vi dice cosa fare perché siete tutti adulti e vaccinati (due volte, forse tre…), quindi ve lo concedo. Sappiate, in ogni caso, che se vi fermate a scattare foto sulla gradinata dei divi non sarete mai la luce dei miei occhi. Insomma, il solito discorso pregno di sottintesi che caratterizza i suoi dispacci (che nostalgia per quel suo sottile e parimenti passivo-aggressivo «vous le savez» dell’anno scorso). Boh, lo adoro («Amore e odio li confondo/ Il bene e il male sullo sfondo,/ il loro scontro» come cantava Gué).
Se il Festival è aperto da un film francese (e ci sta sempre bene, sono i migliori in fondo), forse non è l’idea più brillante farlo con Coupez (già Z, ma questa è un’altra storia – e la sapete tutti -) di Michel Hazanavicius, coerente col suo percorso di rimeditazione cinematografica, ma qui un po’ automatico (per quanto virtuosistico) nel suo remake-rimeditazione del film giapponese Zombie contro zombie – One Cut of the Dead di Shin’ichirō Ueda. La storia è la stessa: si gira un film sugli zombie in un edificio abbandonato, la troupe è demotivata, gli attori non proprio coinvolti, solo il regista sembra crederci sul serio. Ma arrivano gli zombie veri. Poi c’è il secondo grado che si sovrappone al primo (che è girato in pianosequenza). Vediamo quello che è accaduto durante le riprese di quel one-shot (che diventa il film nel film) e comprendiamo una serie di dinamiche del plot (che del plot non sono, lo capiamo) inizialmente oscure.
Hazanavicius mette a punto il suo compitino cinefilo da par suo, sottintende tutto quello che c’è da sottintendere a livello di teoria base dell’horror (decodifica del genere in chiave politica, banalmente solo perché sul concetto ci si sghignazza su), mostra i trucchi, ci fa ridere (anche parecchio in alcuni passaggi), aggiunge al discorso il riferimento all’originale e al suo successo (si sta girando il remake di un film giapponese, tanto per aumentare la vertigine) e, ammiccando a destra e a sinistra (anche Jarmusch è inevitabilmente convocato), mette in scena la sua ennesima dichiarazione d’amore per la settima arte (qui vissuta soprattutto come artigianato, fuori dalle logiche dittatoriali dell’autorialismo per esaltare il cinema come lavoro di squadra). Un’acrobazia, più facile del solito, ma che ha nel motore un Romain Duris impagabile e una maestria dissimulata sotto la cialtroneria della serie Z che va a celebrare.