Alla fine degli anni ’80 Stella, Etienne, Adèle hanno una ventina d’anni. Superano l’esame di ammissione alla famosa scuola creata da Patrice Chéreau e Pierre Romans al teatro Amandiers di Nanterre. Lanciati a pieno regime nella vita, tra passione, giochi e amore, insieme vivranno un’esperienza cruciale, ma anche le loro prime grandi tragedie.
Sono ormai quasi vent’anni che Valeria Bruni Tedeschi ha debuttato alla regia, un percorso segnato da un’autobiografia sublimata in racconti che disegnano una sorta di vita parallela che si rispecchia in quella reale dell’attrice, distaccandosene sempre un po’, a creare una strana, disincantata autofiction. Il suo percorso trova alla fine l’importante approdo al concorso del festival di Cannes: Les Amandiers (il suo titolo numero sette) è, ancora una volta, un’opera che guarda alla vita vissuta (Stella, la protagonista, è l’evidente alter ego dell’autrice), stavolta attraverso lo spettro temporale del passato. Rievocando gli anni di formazione teatrale alla scuola di Patrice Chéreau al teatro Amandiers di Nanterre, si narra allora di Stella che, con i compagni, vive la sua vocazione, incontra l’amore e un grande dolore. Bruni Tedeschi riflette ancora sull’essere attrice, stavolta andando alle radici, a mostrare le origini di una passione e una tendenza all’autoriflessione. Chéreau ne è la radice e più che nel ritratto affidato a Louis Garrel, lo si ritrova nello stile survoltato del film: l’irruenza, l’instabilità, l’energia del maestro innervano l’affresco instabile di una gioventù che vive sulla sua pelle le paure e le ferite di quegli anni. Ma se nell’esagitazione vive lo spirito di un gruppo di lavoro (e un metodo), le si demanda troppo, lo sguardo talvolta rimanendo in superficie. Valeria non appare, ma forse non c’è mai stata così tanto.
Come ha reagito la stampa di fronte a quella che è una delle opere più sentite di Bruni Tedeschi? In modo totalmente schizofrenico.
Non va benissimo con quella internazionale, con giudizi pesantemente negativi sul fronte americano (a cominciare dal Los Angeles Times, mentre è più possibilista il Time) e anglosassone (il Telegraph stronca senza pietà). Giudizi più favorevoli dalla critica tedesca, mentre è moderata quella cinese.
Sul fronte francese Bruni Tedeschi intasca un convinto sì di Premiere, Les Inrocks, Télérama e soprattutto il sempre ostentabile blasone dei Cahiers du Cinéma, cui si contrappone, quasi obbligato, il categorico no di tutto il comparto di Positif. I quotidiani rispecchiano la frastagliatura descritta con giudizi che vanno dal molto positivo (l’Humanité e Ouest-France) al molto negativo (Le Monde e Le Figaro).