Un film come Benedetta, Paul Verhoeven avrebbe potuto girarlo anche molto prima di adesso, e molto prima della sua (ottima) biografia critica su Gesù Cristo del 2011. Perché allora Benedetta arriva proprio nel 2021 (benché pronto dal 2019)? Banalmente, perché il mondo del 2021 è il mondo di cui Netflix è la tristemente adeguata forma simbolica. È il mondo della “fine del lavoro”, il mondo in cui qualunque ambito lavorativo vede decrescere la propria dimensione produttiva (o anche solo “utile”) e cresce a dismisura la dimensione amministrativa. Quest’ipertrofia, però, non è più quella impersonale del capitalismo burocratico weberiano: è invece una fase neo-feudale in cui i rapporti aziendali vengono personalizzati, e quelli personali aziendalizzati. Del resto fu Weber stesso a riconoscere nel protestantesimo le origini del capitalismo: il capitalismo (e quindi il mondo) di oggi è tuttavia un mondo che guarda alla più grande macchina amministrativa non impersonale (fondata, cioè, su rapporti di carattere strettamente personale, e in quanto tale sensibilissimo alla corruzione) di tutta la Storia dell’uomo, ovvero la chiesa cattolica. Netflix è la tristemente adeguata forma simbolica di tutto questo perché le sue mille serie tutte uguali si fondano, al netto delle ovvie quanto ininfluenti variazioni di questo schema, su un medesimo principio: il mondo rimpicciolito in un ambiente più o meno indirettamente aziendale (che sia l’ambiente professionistico degli scacchi, un medioevo di fantasia o quant’altro) in cui tutti cercano di manipolare il prossimo a fini di avanzamento professionale. Tutto qui. Il suo pubblico è gente che in ambienti del genere (dalle multinazionali alle amministrazioni locali alle università a qualsiasi altra cosa rimanga ancora in piedi oggi) ci passa tutto il giorno, e alla sera guarda Netflix, dove viene riproposto un mondo superficialmente diverso ma strutturalmente identico, per confermare l’idea che quello è oggi l’unico modo di vivere possibile e per esorcizzare l’idea insopportabile che le cose potrebbero essere diverse.
Il monastero secentesco di Pescia che vediamo in Benedetta è retto dalla badessa come fosse la filiale di una corporation di successo. Nei suoi confronti, l’occhio di Verhoeven è massimamente materialista, attentissimo alle dinamiche politico-economiche che regolano ogni dettaglio del vivere monastico, dal mercanteggiare sulle doti delle novizie ai rapporti con le gerarchie ecclesiastiche e quant’altro. E infatti nella seconda parte si infiltrano tra le pieghe del film le incessanti, micragnose negoziazioni di potere, con il loro risaputo corredo di manipolazioni, voltafaccia etc., che formano la sostanza stessa di gran parte dell’offerta Netflix.
Perché dunque in questo mondo aziendalizzato in fondo così simile al nostro risulterà vincitrice proprio quella Benedetta che diede scandalo con una relazione lesbica che lei visse sempre come una relazione con Gesù Cristo e/o la Vergine Maria? È questo, in ultima analisi, il punto di questo straordinario testamento con cui il regista olandese lascia un preziosissimo trattato sul saper vivere ad uso delle nuove generazioni.
La saggezza aziendale (l’unica ahinoi possibile oggigiorno) di cui ci mette a parte Verhoeven è questa: chi vive l’ambiente aziendale cinicamente, senza identificarsi mai con il proprio “brand” ma tenendolo a distanza per usarlo a fini puramente strumentali per incrementare il proprio potere, alla fine incontra sempre uno che fa la stessa cosa, però di più e meglio. E soccombe. Sempre. Quindi l’unica maniera per vivere l’ambiente aziendale è iperidentificarsi con il proprio brand nonostante la palese inconsistenza di quest’ultimo. Netflix non serve, basta e avanza il vecchio credo quia absurdum: se vedere il prossimo come un possibile oggetto di manipolazione alla fine si ritorce sempre contro il manipolatore, nulla può fungere da collante sociale quanto la fede verso qualcosa che, proprio perché impossibile da credere, attira a sé la fede di altri come indispensabile a che ci si creda. Il potere arriva come benvenuto, per quanto non direttamente ricercato, sottoprodotto della sostanza sociale e condivisa a cui si ha accesso attraverso la fede in ciò a cui non si può credere.
Verhoeven ci ricorda che ad allenarci in questo intreccio di fede, socialità e potere che è l’unico vero segreto della vita aziendale (oggi ahinoi coincidente con la vita tout court) non può essere la triste liturgia di Netflix, che ci conferma nell’idea sbagliata che la vita è una costante manipolazione interessata del prossimo. L’unica vera palestra per esercitarci in quell’intreccio è, invece, il sesso. O meglio: il giusto (e perfettamente classico) approccio alla sessualità. Che non è quello della “netflixiana” badessa, la quale nonostante migliaia di amplessi (prima del monastero faceva la prostituta) non ha mai trovato un solo miracolo tra le lenzuola. Non lo ha trovato perché il suo, a differenza di quello di Benedetta che i miracoli sotto le lenzuola li ha trovati eccome, non era l’atteggiamento giusto.
Qual è, dunque, l’atteggiamento giusto verso cui Verhoeven vuole sensibilizzare le nuove generazioni, e che non può essere confuso con la mera quantità della pratica? L’atteggiamento giusto è quello fedele fino in fondo a ciò su cui tanta psicanalisi ha insistito, ovvero al fatto che l’attività sessuale ruota intorno a un fantasma, vale a dire una scena immaginaria che dà sostanza al desiderio latente. Come il brand aziendale, il fantasma è qualcosa a cui non si può credere fino in fondo: è una scena che, a prescindere da quanto vi rimaniamo attaccati, è comunque immaginaria. È un’immagine di cui non possiamo nasconderci fino in fondo l’intrinseca implausibilità. È una tela piena di strappi, e questi strappi fingiamo di non vederli affinché la tela possa fungere da supporto immaginario dell’attività sessuale.
Il brand aziendale a cui Benedetta si iperidentifica nella sua corporation (una delle più grandi multinazionali di tutti i tempi) si chiama “Gesù Cristo”. Questi e la Vergine Maria sono i fantasmi a sfondo concretamente sessuale che lei si porta in convento. Successivamente, tali fantasmi assumeranno un corpo nella persona della sua partner saffica Bartolomea, ma Benedetta avrà sempre chiaro dall’inizio alla fine che il loro rapporto non cesserà mai di essere sostanzialmente masturbatorio, perché al centro rimane sempre e comunque il fantasma, non l’altra persona: prima ancora che all’intimità carnale, Benedetta inizia Bartolomea alla fondamentale verità del sesso, e cioè che il partner sessuale non è che un’immagine allo specchio. Ed è del resto questa centralità dello specchio che fa cadere, nell’interpretazione ultraortodossa di Verhoeven, ogni differenza tra omosessualità e eterosessualità (del resto, i fantasmi di Benedetta sono tanto Gesù quanto Maria): in ambo i casi, il partner sessuale non è che un supporto per la proiezione del fantasma. Anche per questo, Benedetta sbeffeggia tanto i contemporanei LGBTQ+ che credono di avversare il cattolicesimo e/o esserne avversati, quanto i contemporanei cattolici che credono di avversare i LGBTQ+ e/o esserne avversati, mostrando invece che la fedeltà vera agli ideali degli uni quanto degli altri porterebbe a combattere dalla medesima parte della barricata, non in parti avverse. Questa, la paradossale ma giustissima concezione di “radici europee” rivendicata da questa coproduzione verhoeveniana. Ma quello che interessa davvero all’olandese è probabilmente qualcosa di ancora diverso: è mostrare come il corpo, nel momento stesso in cui squarcia la tela del fantasma, ne riconferma la tenuta e la consistenza. L’incontro con l’altro ci confronta con qualcosa di eccessivo rispetto alla scena immaginaria che ci figuriamo nelle nostre teste a sostegno dell’attività sessuale: lungi, però, dal rimpiazzare l’astratto con il concreto, il fittizio con il vero, questo eccesso si presta benissimo a ricucire gli strappi della tela fantasmatica che è l’eccesso medesimo a produrre. Più intimamente si incontra l’altro, più solipsistico è il rapporto con il proprio fantasma. E più si rimane attaccati al proprio fantasma, più si incontra l’altro. Secondo la corretta interpretazione di Verhoeven del cattolicesimo, è questo il punto di convergenza tra sesso e religione: non c’è niente di più spirituale dell’eccesso del corpo sullo spirito. Del resto, il primo miracolo cui ci fa assistere il film è un uccellino che caga in testa a un cattivo all’invocazione della Vergine Maria da parte di Benedetta.
Una volta acquisita familiarità con questo fondamentale paradosso dell’esperienza umana attraverso il sesso (o meglio: attraverso il sesso vissuto nel modo giusto, ovvero con piena aderenza al fantasma e alle conseguenze paradossali di questa stessa aderenza), come ci invita a fare Verhoeven, i micragnosi e cinici giochi di potere alla Netflix sono come acqua fresca. Per vivere in un mondo aziendalizzato che fa il verso alla gigantesca macchina amministrativa che fu la chiesa cattolica, non serve adottare una cinica distanza strumentale per cui il prossimo è sempre e solo un oggetto da manipolare per fini di potere. L’unica via è iperidentificarsi con il brand (una volta si sarebbe detto: con l’ideologia), cosa che niente come il sesso insegna a fare, essendo il sesso l’esperienza di come il velo del fantasma (la scena immaginaria che sostanzia il desiderio) viene rinsaldato proprio da ciò che lo squarcia. Iperidentificandocisi con il brand, si intercetta tanto più facilmente la contingenza concreta e presente che sembrerebbe invece sbugiardare quell’astrazione che è il brand; e il circolo vizioso del management che sempre di più non ha altra funzione che mantenere se stesso riesce a tenersi in piedi non grazie al quotidiano gioco al massacro della continua manipolazione reciproca (che rischia a ogni passo di trasformare il circolo vizioso in vicolo cieco), ma proprio grazie all’aprirsi alla contingenza, come Benedetta alle prese con la gestione della peste che assedia Pescia, forte dell’esperienza di quando la contingenza-Bartolomea ha sconvolto, ma per ciò stesso rinforzato, i propri fantasmi erotico-religiosi.
A Verhoeven non resta che perfezionare il migliore stile possibile a sostegno di una tesi del genere. Uno stile cesellato per decenni, e che potremmo definire lo stile di un Mel Gibson che sa quello che fa (esiste ossimoro più spericolato di questo?). Uno stile, cioè, che letteralizza i fantasmi immaginari senza indietreggiare di un centimetro né rispetto alla loro implausibilità (come nelle scene in cui Benedetta si figura l’azione salvifica di Gesù Cristo come uno che arriva a falcidiare serpenti maligni spada in mano con l’incedere furibondo di un RoboCop qualsiasi), né rispetto all’eccesso corporeo più greve (dalle scene di sesso esplicito a Benedetta e Bartolomea che familiarizzano scoreggiando insieme sedute sul cesso). L’una e l’altro, tuttavia, sembrano neutralizzarsi a vicenda: lungi dall’ostacolare l’ingresso dello spettatore in quella tela fantasmatica che è il film, queste forme di eccesso, domate con lucida classicità, sembrano al contrario stimolare le energiche scorribande registiche di Verhoeven, che trascinano lo spettatore dentro la tela macinando eccesso su eccesso, facendogli credere, come e più che in Starship Troopers, in ciò in cui dichiaratamente, e senza minimamente nasconderlo, non è possibile credere.