Ma il concorso? Il concorso è composto di ben 24 titoli, distribuiti con logica imperscutabile nel corso della rassegna e secondo una distribuzione di sala ballerina. Nel senso che alcuni titoli non vengono proposti nella consueta proiezione stampa al Debussy, ma in altre collocazioni meno garantite, soprattutto per gli accrediti dalle tinte più sfigate che dovranno affidarsi alle sale satellitari aperte quest’anno in luoghi raggiungibili in navetta (gentilmente offerta dall’organizzazione) o accendere un cero e sperare in un invito. La richiesta del quale, peraltro, preclude ogni altra possibilità di accesso a proiezioni alternative del film: cioè se scommetti su un invito, scordati le altre proiezioni, anche se diventano disponibili. È una roulette emozionante che finora ho vinto una volta su tre. Insomma una buona media che, proprio perché non ti scoraggia, tanto più ti spinge a provarci. Un gioco d’azzardo in piena regola.
Comunque, anche per un quotidianista, dedito più o meno al solo concorso, coprire tutti i titoli in competizione è un’impresa.
In gara per la palma ha intanto sfilato il film di Joachim Trier, The Worst Person In the World, che racconta di Julie, una trentina d’anni e una certa instabilità: sempre in bilico tra una possibile strada da intraprendere e un’altra (una volta è la scrittura, una volta è la fotografia etc), sempre pronta a riformulare il suo piano esistenziale. Quando sembra aver trovato una certa stabilità con uno scrittore di successo, Aksel, che ha una quindicina di anni più di lei, incontra il giovane Eivind e si rimette in discussione. Il film si compone di 12 capitoli, debitamente segnalati e con tanto di titoli, di un prologo che detta le coordinate del personaggio e di un epilogo che trae le conclusioni della faccenda.
Ho molto apprezzato i precedenti titoli del regista, ma questo suo ritratto al femminile, che segna un ritorno alle scabre produzioni norvegesi degli inizi e che vorrebbe inquadrare la protagonista da molteplici punti di vista, alla fine sembra, al contrario, ripiegato su una prospettiva unica che la riduce a una sorta di personaggio a tesi. E la scrittura di questa commedia di costume, immersa nel contemporaneo e pronta a farci su della facile satira, vorrebbe essere lieve e sferzante, ma al meglio suona pedante, l’umorismo (molto apprezzato, ma in sala si ride per qualunque sciocchezzuola) stantio, la svolta tragica piuttosto forzata. Non mancano notazioni intelligenti, alcune sottigliezze (il tempo congelato), certi voli pindarici che spezzano la continuità stilistica e frastagliano l’ordito, ma persi in un nugolo di semplificazioni sulle quali si è disposti a passare sopra per l’ottima interpretazione di Renate Reinsve, che regge il film sulle sue spalle e ambisce al premio.
Ma un altro parere è in arrivo.
La critica si divide tra il plauso dei britannici (a cui sembra piacere più o meno tutto) e la freddezza dei francesi, con voti diversificati sul resto dell’atlante, ma nessun vero entusiasmo.