CARTOLINA DA CANNES 74 – SAAD AL CERTAIN REGARD

L’era Covid a Cannes significa un Palais semideserto, a cui si accede solo con pass sanitario o, in mancanza, con un tampone salivare (sputa qui, dice l’immagine) da rinnovare ogni 48 ore. Che rigore, che serietà: peccato che poi in sala sia l’anarchia, altro che la ronda veneziana degli inservienti (maschere anche loro, si rischia il corto circuito linguistico) che ti impongono di coprire naso e bocca: qui giovincelli e fanciulle in fiore che ti guardano con occhioni smarriti e, sperando che tu sappia già dove sederti, non ti rimproverano neanche se spandi muco con gli idranti. Per non dire dei cellulari accesi all film long. Ma dov’è la novità? A Venezia, organizzativamente impeccabile, per un granello di polvere si scrivono elzeviri, qui, che talvolta si sfiora il disastro, non si muove foglia che Frémeaux non voglia. E infatti qualcosa deve essere successo se, da qualche giorno, il consueto annuncio the screening is about to begin viene preceduto dalla tonante voce del Grande Fratello Thierry che ci ricorda che i cellulari devono essere tenuti spenti («Vous le savez et respectez cela». Questa io chiamo grande diplomazia: proprio perché vi dico che non vi tratto come bambini, sottintendo che lo siete) e che la mascherina va tenuta su per tutta la durata della proiezione.

Intanto abbiamo visto un discreto film bengalese al Certain Regard, Rehana Maryam Noor di Abdullah Mohammad Saad: la protagonista cerca di conciliare tutti i ruoli che ricopre nella sua vita, lavorativa e familiare – insegnante, madre, medico, sorella, figlia, mentore -, poiché ognuno di essi attiene a un aspetto problematico che ne coinvolge, in chiave avversa, qualche altro, in un difficile gioco di equilibri e di possibili effetti domino: la giustizia che la donna richiede (c’è di mezzo una violenza sessuale ai danni di una sua allieva e un comportamento insolito a scuola della sua figlia di sei anni) si scontrerà con le assurdità della società patriarcale. Intreccio di costruzione complessa sul quale si dispiega lucida la scrittura che, se ha un peccato, è quello di evidenziare didascalicamente i nodi tematici, segnalandone puntualmente allo spettatore le implicazioni sociali e politiche.

In concorso intanto è subito il turno di François Ozon. Se il nostro non vincerà mai un Festival (le due occasioni sono state il Frantz di Venezia – il suo migliore degli ultimi anni – e Grazie a Dio in Berlinale) è perché le sue sono sempre piccole opere che vanno ad alimentare un opus complessivo che si afferma come il vero capolavoro del Nostro. Non fa eccezione questo Tout s’est bien passé, gioiellino che, sembrando affrontare il tema importante (l’eutanasia) finisce (rischiosamente) per giocare su tutt’altro campo. Non sorprende allora che la stampa rimanga tiepida: se non stupisce il solito consenso di Positif (ma già immaginiamo i Cahiers fare fuoco e fiamme), i quotidiani francesi rovesciano i pollici (Libération e Le Monde a fare da capofila). A livello internazionale qualche entusiasmo in più (in Italia, ma anche nel Regno Unito), ma il pagellino generale non è generoso per l’autore transalpino. Peccato, perché si è presentato con un titolo di grande finezza e intelligenza (seguirà la trattazione in dettaglio).