CARTOLINA DA CANNES 74 – OZON IN CONCORSO

Tout s’est bien passé, è un film complicato sulla carta perché incrocia l’eutanasia, tema per molto pubblico indigeribile soprattutto se tratto da un’esperienza vera, quella di Emmanuèle Bernheim, scrittrice e sceneggiatrice, amica personale del regista (e, in molti casi, anche sua collaboratrice), scomparsa nel 2017 . Ecco che a traghettare questa storia “difficile” viene allora chiamata Sophie Marceau, beniamina del pubblico transalpino, assente dagli schermi da tre anni.
Si racconta di André che, sopravvissuto a un ictus, chiede alla figlia di poter morire. Ozon, sulla carta, sembra affrontare il tema importante e il conseguente film inchiesta, ma, come fa sempre, piega la fonte prescelta, il libro autobiografico di Bernheim, ai suoi scopi. Perché quella dell’eutanasia è solo la chiave di accesso a una complessa storia familiare disseminata di tracce, indizi, e strategiche omissioni che consentono, gradualmente, di modulare le rivelazioni, i risvolti, le implicazioni. Non ci troviamo, dunque, di fronte a un film di denuncia: se emergono, infatti, dilemmi etici e garbugli legali (in Francia l’unica via al suicidio assistito, per un malato non terminale, è espatriare), ciò avviene sull’intelaiatura di una saga familiare intinta in colori imprevedibilmente brillanti in cui il morituro è un salaud jusqu’a au bout, lo stronzo da una vita che, anche in questa occasione, porta avanti il suo egoistico discorso, senza tenere in alcun conto la situazione di difficoltà in cui ficca Emmanuèle e la sorella.
Il bello è che André, oltre a determinare le logiche familiari, detta anche il tono del film: che è drammatico fin quando il nostro è immobilizzato a letto dall’ictus, ma che diventa una caustica commedia man mano che il Nostro si riprende e pretende di dettar legge com’è abituato a fare, poiché le figlie – soggiogate dalla sua personalità e sapendo di esserlo (quasi grate masochisticamente di questo) – non possono, non riescono, non vogliono negargli nulla. Perché André è uno di quei tipi carismatici che si amano anche per i loro difetti e perché è chiaro da subito che se vuole morire è perché ama troppo la vita per permettersene una “diminuita”. Così tra dolorosi ricordi, istigazioni alla lite (le preferenze espresse dal padre all’una o all’altra figlia, solo per il gusto sadico di vederle competere: Ozon insiste sul punto alla fine, inventandosi il dettaglio per cui Emmanuèle riserva per sé la chiamata dalla Svizzera che comunica il decesso), dialoghi asfittici con la madre depressa (una sfinge di nome Charlotte Rampling ), deliziosi rimpalli di battute, si mettono in gioco traumi passati e perdoni già espressi: tutta la sofferenza che questa famiglia ha attraversato è oramai sublimata, viene al pettine solo per poterla liquidare definitivamente, senza struggimento, senza rancori, senza sciorinare debiti e crediti, compensando velocemente tutto. Perché questo non è il film sul fine-vita che ci si aspetta. Volevate una scena madre? Ozon ne fa a meno («Perché non l’hai lasciato?», «Perché lo amavo, stupida»: battuta non a caso inesistente nel libro). Volevate il dossier? Ozon ci dà qualcosa di più e di meglio: l’umanità e la vita (l’insistenza sul dettaglio quotidiano, così cara al regista, qui derivata direttamente dallo stile del libro, tutto behaviorismo, immagini folgoranti, frasi secche).
Soprattutto: volevate piangere? Ozon vi fa ridere, tanto che ci infila dentro persino la slapstick, come fossimo in una commedia hollywoodiana. E il problema socio-economico lo adombra con una battuta (la più bella e forte del film), cinica perché comprensiva del dramma altrui, ma nella consapevolezza di esserne fuori («Ma come fanno i poveri?»). Un film di acuti, progressivi spiazzamenti (un giallo che si chiama Grosse Merde), che evita la didascalica riflessione e che anche quando sembra adombrare una complessità metaforica, la fa abortire platealmente (il sandwich col morso paterno, messo in freezer a congelare, non diventa simbolo di nulla – non ce la fa, non ne ha la forza –  e finisce per essere gettato nel cestino poche scene dopo). Un film sulla morte, certo, come Sotto la sabbia (non a caso scritto con Bernheim), come Il tempo che resta, come – già, non dimentichiamolo – Estate 85; una morte evocata da quel count-down implicito nelle didascalie che segnano il passare dei giorni. E che snocciola il suo cast come in un’ideale passerella (Eric Caravaca, Hanna Schygulla, fassbinderiano angelo della morte eccetera) e che, soprattutto, dà spazio a una luminosa Sophie Marceau, un filo blu che si snoda per tutto il film.