Ovviamente si dirà diffusamente di Tre piani di Nanni Moretti a settembre, quando finalmente il film, attesissimo, uscirà nelle sale italiane. Non sappiamo Frémaux quanta pressione abbia esercitato sull’autore per convincerlo a tenere ferma la prima mondiale a Cannes (immaginiamo molta), dopo il buco festivaliero del 2020 (il film era tra quelli previsti per l’edizione abortita), certo è che, a ragion veduta, l’intermittenza dell’apertura delle sale della passata stagione non avrebbe giocato a favore. Appare quindi abbastanza naturale l’approdo tardivo in Croisette del primo film in cui Nanni Moretti si confronta con l’adattamento di un romanzo, l’omonimo dello scrittore israeliano Eshkol Nevo, testo densissimo che lascia intravedere, nella sua struttura tripartita (tre piani dello stesso condominio e tre fili narrativi), motivi freudiani e differenti scelte di tono e stile a seconda della vicenda narrata. Il regista inscena una serie di eventi che trasforma radicalmente l’esistenza degli abitanti di un edificio romano, svelando la loro difficoltà ad essere genitori, fratelli o vicini in un mondo dominato da paure e rancori.
È sempre difficile sbilanciarsi in prima battuta sui film di Moretti che vanno digeriti e meditati, rivissuti a distanza di tempo, per poterne cogliere le sfumature e la reale ampiezza (a volte sono talmente nei tempi che solo lo sguardo storico riesce a comprenderne la reale incisività). Ciò detto, forte della convinzione che fuori dal suo habitat naturale il cinema di Moretti mostri i suoi limiti (La stanza del figlio), ho trovato Tre piani il film meno riuscito della sua carriera, tanto ambizioso nel disegno (e gridato nei motivi) quanto manchevole nella scrittura. Certo la messa in scena prosciugata ha i suoi meriti, amplificando la sostanza umana in gioco, lasciando percepire i meccanismi morali stringenti che governano la vita dei personaggi (uomini quasi sempre testardi, donne più aperte, possibiliste, pronte alla ricucitura), le implicazioni sottese, il complesso reticolo che (in)visibilmente li connette, ma l’impressione è che il regista, fuori dall’alveo dell’autofiction, alle prese con un romanzesco complesso, stratificato e adattato di forza (e di forza trapiantato nella realtà della borghesia romana), ambisca ad altra profondità (e necessiti, forse, di altri sceneggiatori). A disorientare (il tempo dirà) è anche una gestione del gioco attoriale tanto più infelice nel suo proporsi straniato, quanto più quel tono suona cercato, voluto.
Ma, ripeto, un film come questo va riconsiderato in una dimensione meno convulsa di quella festivaliera, per poterne dire con maggiore lucidità. La stampa peraltro, è stata tutta tiepida: i francesi, da sempre morettiani convinti, hanno mostrato qualche folata (i Cahiers, ovviamente – ma senza i soliti peana -, L’Humanité), ma nella generale indifferenza (quasi tutti i quotidiani sono rimasti alquanto freddi, con Le Monde sarcastico: «Comment dit-on « OK boomeur » en italien?»).
Anche nel resto del mondo il consuntivo critico non può dirsi positivo.