A Hero affronta il nodo della gestione della propria narrazione pubblica e dell’impossibilità di controllarne interpretazioni e modi di percepirla. Soprattutto se, come avviene nel film, l’origine di questa narrazione contiene una bugia. Così Rahim – padre separato, in prigione per un debito contratto con l’ex cognato – restituendo, nonostante la sua necessità, una borsa piena di monete d’oro ritrovata per caso, compie un gesto la cui nobiltà viene obnubilata dalle circostanze nelle quali è stato compiuto. La borsa, infatti, diversamente da quanto l’uomo dichiara, non l’ha trovata lui, ma la sua nuova compagna. Una bugia irrilevante, che non intacca l’eroismo del gesto: che sta in quel rinunciare a una somma di denaro di cui si aveva bisogno per un principio di giustizia. Ma – e qui è il punto – se c’è una piccola macchia nell’esposizione del fatto, sarà a quella macchia, per quanto piccola o irrisoria, a colpire l’opinione pubblica, per quell’istinto indomabile della massa a mettere da parte il buon senso, a pretendere idealistica perfezione e ad attaccarsi perversamente al dettaglio debole, attribuendogli eclatanza sporporzionata, dando infine abbrivio a sospetti e complottismi. La spettacolarizzazione del caso, poi, lo inquadrerà in una cornice mediatica che imporrà a quella narrazione le sue regole, i suoi corollari. E le sue zone d’ombra: che determineranno altro fango.
Così non è più importante ciò che è vero, non la notizia in sé, ma il modo in cui viene diffusa (il figlio balbuziente può allora diventare lo strumento pietistico per legittimare ciò che si dichiara). Con paradossi esemplari: la circostanza della restituzione della borsa, veritiera, verrà sorretta da testimonianze false, nell’impossibilità di procurarsene una autentica. Perché la verità non basta, occorre renderla plausibile. Come? Con la menzogna. Mentre è la reputazione – mutevole come i fatti e le opinioni che la determinano – a fare da ago della bilancia che decide di comportamenti, esposizioni, racconti pubblici e contrattazioni private. Elementi che s’incastrano in una narrazione con effetto domino, reazioni a catena in cui ogni tessera ne fa cadere un’altra: lo sappiamo, il cinema dell’iraniano è meccanismo inesorabile in cui ogni azione ha conseguenze, scorrendovi, sotterranea, una vena thriller.
Un eroe è dunque una nuova architettura perfetta, in accumulo di tensione e motivi, che impone, ancora una volta, la capacità di Farhadi di nutrire con una sostanza sensibile una struttura vistosamente teorica, in cui la borsa con le monete è palese macguffin, mentre le tante sfortune connesse – circostanze che si accaniscono sadicamente quanto puntualmente sul protagonista – sono gli ingranaggi evidenti che consentono al meccanismo del racconto di procedere. Scintillante schema, certo, ma per una materia incandescente, fatta di umanità palpabile, che si stacca dal controllo millimetrico dei passaggi narrativi e, senza smentirne la precisione (anzi), diventa storia emotivamente coinvolgente. E significativa anche come chiave di lettura della realtà: invasività nel quotidiano delle logiche social; condivisione esasperata di fatti ed esperienze, dibattiti relativi e opinionismo pavloviano; dibattito viziato, in bilico tra verità, bugia, post verità; tecnologie vecchie (il telefono fisso della prigione) e nuove (i cellulari e le loro cronologie) con gradi diversi di trattenimento del vero.