Con Wes Anderson, come con tutti i registi che hanno una poetica riconoscibile, si rischia, a ogni film, di riscrivere, almeno in parte, le stesse cose, a meno che non si decida di dare per scontati una serie di aspetti e caratteristiche che, stante anche il riscontro ottenuto dalla sua filmografia, probabilmente sono già a conoscenza di chi ci legge. The French Dispatch, da questo punto di vista, apparentemente non fa eccezione, ribadendo le marche dello stile dell’americano che – come tutti gli autori che danno voce alle loro ossessioni e ne fanno cinema con forme originali e rivendicate – finisce con l’essere amato e odiato per gli stessi motivi.
Stavolta lo zoo di caratteri inventato da Anderson non è illustrato da un libro – come in alcuni casi era avvenuto in passato -, ma trova origine, struttura e ambientazione in un magazine immaginario – in evidente omaggio a The New Yorker – ovvero il French Dispatch del titolo, prestigioso supplemento del Kansas Evening Star, con redazione in Francia. Morto il direttore, per sua volontà la pubblicazione viene sospesa, salvo un ultimo numero, composto di tre articoli già precedentemente apparsi sulle sue pagine e riproposti a mò di necrologio: così il film termina con la preparazione del numero finale, appena illustrato allo spettatore nei suoi tre servizi-storie.
Come dire che la cornice – che abbraccia una geografia specifica e un preciso lasso temporale – inquadra un insieme ampio e complesso di storie, che sono tutte quelle pubblicate dal magazine in passato: di questo insieme, programmaticamente – attraverso l’espediente delle ultime volontà dell’editor in chief -, ne viene narrata una frazione minima. Una parte per il tutto, un tutto comunque implicato nello squadernare lo scheletro della rivista e le rubriche che la corredano, come se l’intera collana dei numeri (e i suoi contenuti) fosse ipoteticamente consultabile (immaginiamola come un’opera interattiva, con elementi cliccabili). Insomma, raccontando le sole vicende prescelte e i loro personaggi, si dice, indirettamente, di un intero mondo immaginario: la Francia anni 60 concentrata in una cittadina inventata (che ha il nome composto da due parole francesi che si usano in tutto il mondo, Ennui sur Blasé, quasi a rivendicarne il carattere fittizio e la prospettiva allogena) che distilla l’immagine di una nazione come consegnata al regista dall’immaginario cinematografico francese dell’epoca. Jacques Tati è subito della partita, ma c’è molto altro, a cominciare da tantissimo Godard anni 60 (da Fino all’ultimo respiro a La cinese).
Esplorare il mondo partorito dalla sua immaginazione, dunque, è, come sempre (ne scrivevo a proposito di Moonrise Kingdom), il fine del regista. Cosa c’è di davvero appassionante nel girovagare di Herbsaint Sazerac (Owen Wilson) attraverso le strade della città? Nulla, lo scopo non è quello di coinvolgere il pubblico in un racconto emozionante, ma quello di avere un cursore che si muova sul piano dell’opera come potrebbe farlo uno spettatore attivo con il suo mouse: così Sazerac, offrendo il confronto di passato e presente di ogni luogo di questa cittadina immaginaria e presentandola come abitata da una comunità tutto sommato placida e ordinaria, instilla in chi guarda l’idea che le storie raccontate negli articoli siano false, apocrife, aumentate rispetto a una realtà ben più piatta («Vuole essere affascinante» dice il giornalista a Howitzer Jr./ Bill Murray, figlio del defunto direttore e anima del magazine, che gli fa le pulci). Siamo insomma dentro la consueta mitizzazione di Wes Anderson e alle sue varianti possibili, tutte partenti, ed è quello il punto caratteristico, da un dato reale, identificabile. L’intera filmografia del texano passa attraverso questa pratica esperienziale: entrare in ambienti ricostruiti secondo un ideale che rispetta prerogative estetiche riconoscibili storicamente, osservarne i dettagli, evincere ciò che concerne i personaggi da ciò che li circonda e gli appartiene, più ancora che da quello che il racconto nel suo sviluppo mette in evidenza. The French Dispatch porta questa pratica a un ulteriore grado di perfezione, mettendo a nudo il metodo andersoniano: lo fa evidenziando il surplus letterario col quale si dipinge un quadro che «vuole essere affascinante» (Sazerac docet) a fronte di una realtà ben più prosaica. Un discorso che s’inscrive nel sistema del regista ormai all’apoteosi: script come griglia (ci torniamo), ambientazione come circuito chiuso (e quindi ingabbiata in inquadrature simmetriche), film come sistema estetico in opera e lavoro concettuale. Ad Anderson non preme davvero l’essenza o (diocenescampieliberi) il tema degli episodi proposti, quanto il modo in cui questi funzionano, sullo schermo e nel microcosmo congegnato per contenerli. Gli interessa fare cinema (è un regista, del resto).
Perché se The French Dispatch è l’omaggio che Wes Anderson intende fare al mondo del giornalismo, non può che esserlo alle sue condizioni (alla sua maniera?).
E sono storie intricate, punteggiate da circostanze paradossali e risvolti grotteschi, senza alcun pathos. Perché? Perché non deve esserci nessuna tentazione dello spettatore a immedesimarsi nei personaggi. Di più: tanto più i loro drammi si aggrovigliano, tanto più si arricchiscono di particolari, tanto più abbondano di informazioni, tanto più fanno rinunciare lo spettatore a seguirli (li capiremo meglio dalla seconda, terza volta in poi), obbligandolo a guardare, ad arrendersi alle immagini. Perché (e due), se non fosse chiaro abbastanza (ma c’è un’opera omnia che ce lo dice ormai da un ventennio), sono le immagini che interessano al regista, immagini che non nascono per illustrare un mondo: è il mondo che viene creato appositamente perché dia loro origine. È un discorso che trovo ammirevole proprio per la sua chiusura al compromesso, nel suo bastarsi eccentrico, nel suo definitivo affrancarsi dall’empatia spettacolare, nel ridurre il racconto a pretesto (a coloro che si chiedono – come se fosse condizione che ogni film di un autore deve avere – cos’ha di nuovo The French Dispatch rispetto ai precedenti, la risposta è in questa radicale – definitiva? – umiliazione del racconto a puro generatore di immagini).