CARTOLINA DA CANNES 74 – DUMONT E (LA) FRANCE

Un’ennesima satira sui media fuori tempo massimo? Non proprio. È vero che il film comincia pedinando dietro le quinte la potentissima giornalista d’assalto parigina France de Meurs e l’ominide che le fa da assistente, restituendo con brutale, secca frontalità l’ovvio cinismo, le falsificazioni manipolatorie (anche in territorio di guerra) e i rituali quotidiani (spiccatamente sessisti) di quell’ambiente. Ma quando France si rende responsabile di un lieve incidente stradale che impedisce alla vittima (proletaria) di lavorare, le cose cambiano.
Non cambiano, però, nel modo in cui se le aspetterebbe lo spettatore. Non si tratta, infatti, di un “percorso di redenzione attraverso il dolore”: Dumont si rende perfettamente conto che una tale imitatio Christi da un lato sarebbe perfettamente in linea con un cinema che, come il suo, ha sempre flirtato con un’anacronistica ricerca del trascendente, ma dall’altro potrebbe essere il soggetto perfetto per un documentario qualsiasi da mandare su Real Time o qualche altro oscuro anfratto del digitale terrestre.
Se dunque satira dei media ha da essere, che non prescinda dal monito di Guy Debord: dallo Spettacolo non si esce. Lo Spettacolo vive dell’occultamento del proprio funzionamento, e per questo è diventato compiutamente e da tempo IL fenomeno totalizzante della nostra società. Nessuno ne è più prigioniero di chi crede di starne fuori. Semmai, l’unica chance di scardinare lo Spettacolo sta nello stare sia dentro che fuori, diventando la dimostrazione vivente del suo funzionamento: un nastro di Moebius il cui dentro e il cui fuori coincidono. Il manuale di istruzioni lo ha già fornito da più di settant’anni Robert Bresson, idolo di Dumont e ispiratore di gran parte della sua filmografia, con Les dames du bois de Boulogne, film improntato sulla paradossale coincidenza a nastro di Moebius tra cinismo e innocenza, tratto da quel genio del paradosso che fu Diderot (Giacomo il fatalista).

A Dumont dunque non rimane che fare ciò che Bresson, calcolatore scafatissimo della propria immagine ascetica ai fini di auto-marketing, fu sempre a un passo dal fare ma non fece mai: autodenunciarsi come complice attivo della tentacolare macchina dei media. Dumont, in altre parole, fa di tutto per dirci che se France è cinica e manipolatrice, lui è uguale: il suo cinema, in apparenza così radicale e anti-mainstream, si autodenuncia come perfettamente allineato al mainstream più retrivo. Tra l’iperrealismo carnale del suo cinema e l’estetica del reality show, non ci sarebbe insomma vera differenza – e dichiaratamente.
Perfezionando il gioco di cesure narrative sperimentato in Ma Loute, Dumont parte con una piccola inverosimiglianza (il veniale incidente citato più sopra, che porterebbe France verso il ravvedimento morale) per poi disseminare il resto del film con inverosimiglianze sempre crescenti, ingigantendole con certosina gradualità. Non è solo un modo di autodenunciare il carattere manipolatorio della narrazione (la quale affianca così l’oggetto della propria critica, France, accusata dall’inizio di essere manipolatrice), ma anche un modo di suggerire una sensazione di immobilità: ci sono così tanti rovesciamenti narrativi, e sempre più drastici, che alla fine tutto questo rovesciarsi perde qualunque effetto, e si annulla in stasi. Più si cerca lo shock, più si trova l’indifferenza. Tutto cambia, e cambia sempre più radicalmente, finché ci troviamo costretti all’improvviso a riconoscere che non è mai cambiato niente. France vive una stasi analoga, imprigionata in un mondo in cui, come sa qualunque laureando di scienze della comunicazione, oltre una certa soglia di notorietà più la propria immagine mediatica viene gettata nel fango più gli spettatori la amano. Più le cose cambiano drasticamente, più le cose rimangono uguali. Tanto da parte di Dumont quanto da quella di France dunque c’è un gran dibattersi per liberarsi, invano, dei paradossi dello Spettacolo, che continuano a braccare tanto i media mainstream quanto ciò che si autovende come “alternativo” per ragioni di marketing.

Ma attenzione: questo non sancisce affatto la vittoria definitiva dello Spettacolo. Percorrendo il nastro di Moebius da uno dei due lati si finisce sempre sull’altro: se l’innocenza diventa cinismo, il cinismo diventa innocenza; stare fuori allo Spettacolo significa appartenervi, ma appartenervi significa esserne sbalzati fuori. Qui entra in gioco il partito preso stilistico di Dumont, che consiste nell’insistenza sui primi piani della sua protagonista (e degli altri personaggi). In questo film in cui continui rovesciamenti si rovesciano in immobilità, Dumont si allinea a Robert Bresson rovesciandolo: se Bresson trovava l’espressività nell’assenza di espressione a cui riduceva i propri attori, Dumont parte, al contrario, da primi piani di Lea Seydoux sfacciatamente espressivi, che però a forza di scrutarli al microscopio della cinepresa finiscono per rivelare un’inquietante inespressività di fondo. Più si cerca il vero più si cade nella falsificazione mediatica, ma il neutro non è né vero né falso, e dunque è, di per sé, estraneo allo Spettacolo.
Quindi no, lo Spettacolo non è l’ultima parola. Quando viene trovata una forma alla coincidenza tra starne dentro e starne fuori, lo Spettacolo viene fattualmente scardinato: in France, sullo sfondo di continui rovesciamenti che si trasformano in stasi, questa forma è la post-bressoniana neutralità espressiva, che taglia trasversalmente la divisione stessa tra dentro e fuori. Solo quando, nell’ultimissima scena, avremo finalmente per la prima volta l’uno di fianco all’altra la cinica e l’innocente, l’insider mediatica e l’outsider, solo allora emergerà un sintomo genuino dell’unica realtà autentica, che non è né la realtà vera del mondo né quella finta dei media, ma la realtà sociale, nella sua micidiale neutralità.