CARTOLINA DA CANNES 74 – CANNES PREMIERE

Cannes Premiere è la nuova sezione-contenitore nella quale deviare produzioni d’autore non ricomprese nel concorso, fingendo, grazie al bonus di una presentazione frémauxiana, di dar loro importanza (il bellissimo trittico Evolution a firma Kornél Mundruczó, Vortex di Gaspar Noé, Tromperie di Arnaud Desplechin, Serre-moi fort di Mathieu Amalric), documentari griffati (Cow di Andrea Arnold, Jane by Charlotte ovvero la madre Jane Birkin secondo la figlia Charlotte Gainsbourg, lo struggente e precisissimo ritratto di famiglia del Marco Bellocchio-Palma d’onore Marx può aspettare – presto nel dettaglio -). È qui che mi sono imbattuto in Mothering Sunday di Eva Husson (autrice-dell’-atroce Gangbang), screening scansato come la peste (o una positività al Covid) dai cinefili duri e puri e goduriosa, felicemente colpevole visione per il sottoscritto, che di esperienze-limite ne ha sempre voglia. Del resto come privarsi di un adattamento dall’omonimo romanzo di Graham Swift? Che narra, negli inglesi anni 20, di come, nella giornata di riposo concessale per la festa della mamma (da cui il titolo), Jane Fairchild, domestica di una famiglia di aristocratici, si incontri con il suo amante Paul, figlio dei nobili vicini e promesso sposo di una altrettanto nobile giovane. Che ovviamente non ama. Ma, come poetava Totò, la casta è casta e va sì rispettata.

Husson costruisce una laccata cornice nella quale mettere in mostra il prestigioso cast, gira come se fossimo in uno spot lunghissimo di Home Furnishings di Laura Ashley – tra fluo sparati, tinte pastellate, stremati ralenti – e mette plasticamente in posa i due amanti (Odessa Young e Josh ‘O Connor), denudandone spesso e volentieri le bianche carni, perché si possano muovere – come le bestiole animate dalla passione che sono – in un mondo acchittato e schiavo delle forme. In questa confezione, troppo kitsch per escluderne la coscienza, galleggiano (talvolta boccheggiano, a volte annegano) i motivi del romanzo: la questione di classe, il discorso sulle origini, l’arguto gioco fatale, i livelli concentrici della narrazione. Certo, deve dare una discreta sensazione di potenza avere in scena tanto tempo Colin Firth solo per fargli ripetere mille volte che è una magnifica giornata (scherzo, è il loop di un personaggio annichilito dal dolore), Olivia Colman per farle spiccicare tre battute in croce (tra le quali, va detto, c’è la più importante del film, quella che allude alla condizione di orfana della protagonista come a un dono «Non hai niente da perdere, tutto da guadagnare») e scomodare Glenda Jackson solo per un paio di ciak e, nel finale, ricordare a chiunque (fuori da ogni narrazione?): «Ho vinto tutti i premi».
Uscito assai soddisfatto.