Se la competizione registra l’entusiasmo diffuso per Compartment No. 6 di Juho Kuosmanen (una giovane finlandese prende un treno per Mosca per raggiungere un sito archeologico nel Mar Artico, condividendo il suo scompartimento con uno sconosciuto: questa convivenza e alcuni improbabili incontri avvicineranno i due) e la débâcle totale di Flag Day di Sean Penn (la storia vera di John Vogel, interpretato dallo stesso Penn: criminale, truffatore, ma anche padre sognatore, visto dal punto di vista della figlia, debitamente incarnata da Dylan, la primogenita di Sean), fanalino di coda di qualsiasi pagellino cannense da qui all’eternità, attesissimo, perché annunciato da tempo ed evidentemente messo in stand-by per avere la sacrosanta esposizione a un festival di prestigio – è Bergman Island. Nel quale Mia Hansen-Løve affronta da prospettiva obliqua un gigante della storia del cinema, narrando di una coppia di cineasti (Chris e Tony, interpretati da Vicky Krieps e Tim Roth) che, per scrivere i rispettivi film, si reca a Fårö, l’isola in cui Ingmar Bergman visse e girò tanti dei suoi capolavori. La regista irradia suggestioni del maestro svedese (Chris spia tra gli appunti del compagno, come esplorandone le fantasie segrete, quasi a replicare certi meccanismi di Come in uno specchio, il primo film che Bergman girò nell’isola, e Persona) nel ritratto di una relazione amorosa che adombra il legame dell’autrice con l’ex Olivier Assayas quale campo di confronto, continua ricerca di ascolto, tacita competizione.
Mentre il film che Tony sta scrivendo sembra dare visibilità e sostanza ai tormenti fantasmatici che proliferano all’interno del rapporto della coppia protagonista (che dorme nella camera da letto di Scene da un matrimonio…), il film dischiude la storia per immagini dello script in divenire di Chris, un ulteriore gioco di specchi (un’altra coppia, interpretata da Mia Wasikowska e Anders Danielsen Lie) che, enfatizzato dai luoghi che nutrirono l’immaginario bergmaniano, diventa abissale, nella progressiva confusione dei livelli e dei personaggi, reali e di finzione. Ma senza intellettualismi o ingombranti confronti, anzi, con mano leggera: perché la regista consegna la prismatica narrazione a un solare e/ma crudele racconto d’estate che sa meditare, con inevitabilità naturale, sui film precedenti della cineasta e farsi anche esplorazione ironica di certo ossessivo feticismo cinefilo (il Bergman Safari è realtà).
Le reazioni della stampa francese sono state mediamente buone (se i quotidiani sono quasi sempre favorevoli, gli specializzati, con l’entusiasta Les Inrock in testa – registrata la prevedibile freddezza dei Cahiers – non sembrano essere da meno). Nel mondo: se la stampa anglosassone dice ancora sì (a questo punto viene voglia di segnalare solo i no, se mai ve ne fossero), riserve sul fronte tedesco, russo e statunitense.