Cartolina da Cannes (26 maggio)

The ImmigrantMolto intelligente, forse troppo, James Gray nei quattro lungometraggi passati ci ha abituato a film che di fatto non erano che il loro scheletro, uno scheletro segnatamente letterario. Di carne intorno non se n'è mai vista, nemmeno nel caso di Two Lovers che pure tentava di rimpolparsi in qualche maniera.
_x000D_In The Immigrant, finalmente, la carne c'è e si vede. Essa consiste, semplicemente, nel rivestimento kolossal del progetto, nello sfarzo scenografico della ricostruzione di una New York di poco dopo la Grande Guerra, nelle straordinarie luccicanze giallo oro delle luci di un Darius Khondji sempre più impudicamente esibizionista.
_x000D_Non è un caso che si parli di scheletri e di carne: è normale che si tratti di incarnazione per un regista come Gray, affezionatissimo a sottotesti apertamente religiosi. Qui veniamo al punto più interessante del film: il modo in cui entrano in gioco le onnipresenti Radici Ebraiche. Se fino ad ora una delle cose che appesantivano il cinema di Gray era la declinazione di queste radici nel senso di una specifica appartenenza etnica, ora la posta si alza e la questione si sposta più in generale sull'iconoclastia: nel conflitto tra essa e la cattolica iconolatria, The Immigrant tenta di individuare nientemeno che l'origine mitologica di quello che fu il (breve) secolo a stelle e strisce.
I due uomini tra cui è divisa la (cattolica) polacca Ewa appena sbarcata nella grande mela prendono in tutta evidenza ognuno una delle parti in gioco. L'ebreo Bruno, spietato impresario teatrale (e lenone) messo in crisi dal consolidarsi del cinema, non fa altro che nascondere. Orlando, illusionista che entra in scena con un primo numero in cui levita con le braccia aperte a mo' di crocifisso, e con un secondo che consiste nientemeno che in una resurrezione, rivela continuamente alla vista ciò che dovrebbe rimanere nascosto (e a un certo punto è proprio Ewa a farne le spese), o più in generale starsene acquattato nell'invisibile.
_x000D_The Immigrant, di fatto assomiglia più al primo che al secondo. Anzi, assomiglia di più all'interprete del primo, un Joaquin Phoenix che continua a essere superbo (anche se qui fa poco più che affinare il suo già rodato repertorio): un quid opaco e nebuloso (ogni kolossal lo è) che di punto in bianco scoppia e con poca diplomazia butta sul tavolo tutte le carte, che non riesce più a tenere nascoste, facendo riguadagnare la superficie al sostrato melodrammatico.
_x000D_Lo zoccolo duro dei fans di Gray, forse, storceranno il naso davanti al suo relativo eclissarsi dietro (se non sotto) all'imponenza del progetto. È tuttavia Bruno stesso, e non a caso, a sacrificarsi affinché possa avere luogo lo Spettacolo: affinché, cioè, Ewa possa ricongiungersi con la sorella (trattenuta a Ellis Island al momento dello sbarco), l'immagine mancante sulla superficie dello Specchio.


Venus in FurUn regista teatrale parigino cerca di adattare Venere in pelliccia di Leopold von Sacher-Masoch; sta per lasciare il teatro dopo una giornata di disastrose audizioni, disgustato da decine di sciacquette indegne di impersonare la protagonista del romanzo. A quel punto entra Vanda. Sì, Vanda all’anagrafe, come l’eroina di Sacher-Masoch. E si rivela presto perfetta, insostituibile. Tra regista e attrice, vittima e carnefice, inizia un vertiginoso scambio di ruoli.
_x000D_Cos’ha Vanda di speciale rispetto alle altre? Nulla. Anzi: è ancora più sciacquetta delle altre. Non da oggi uno dei cardini del cinema polanskiano (dai primi corti a Repulsion, da L’inquilino del terzo piano a La morte alla fanciulla a Luna di fiele a molto altro), il masochismo è qui (come in Deleuze, in Carmelo Bene o altrove) innanzitutto ricerca dell’eterno femminino che si sa impossibile – non perché irraggiungibile, ma perché, al contrario, se questo ideale consiste nello sfuggire in sé e per sé dalla presa dell’idealizzazione maschile, allora esso è già/sempre realizzato.
_x000D_Perché allora proprio lei, e non una delle mille altre? Perché lei riesce a pronunciare correttamente la parola “inestricabile”. Sì, inestricabile è la parola chiave, perché ogni Venere idealizzata rimanda indietro lo sguardo maschile. A partire da qui, un parossistico gioco di inversioni reciproche, condotto integralmente tra le quattro mura di un teatro, su e giù dal palco, varcando continuamente il bordo della scena fino a dissolverlo. La sala e il palco, lo sguardo e il suo oggetto: inestricabili. La regia è allo stesso tempo ultrateatrale (che ritmo!) e perfettamente cinematografica, perché per pura virtù di angolazione e di diagonalità le inquadrature polanskiane si pongono agli antipodi della frontalità della scena. Del resto, il raffinatissimo scavo nelle pieghe di Sacher-Masoch porta Polanski a intrecciare le relazioni tra i sessi con la relazione stessa teatro-cinema. La donna, “inestricabilmente” ostacolo e compimento dell’idealizzazione maschile, viene identificata allo sguardo impersonale “di nessuno”, uno sguardo che letteralmente inghiotte (la prima e l’ultima inquadratura, che incorniciano il film) lo sguardo maschile incatenato alla propria prospettiva frontale/teatrale/fallica. Non solo. Questo “occhio di nessuno”, limite irraggiungibile della limitata visione dell’uomo, assume nel film vistosi connotati teologici. Il terzo personaggio di questo serrato duello, infatti, è nientemeno che Dio – ma è ovviamente un Dio che non si manifesta direttamente (sì: dopo Gray, questo è l’altro grande film ebraico del festival), ma solo nelle bestemmie di Vanda, nei tuoni, e in una inequivocabile didascalia finale.
_x000D_Insomma: una abissale “semitizzazione” del capolavoro di Sacher-Masoch, che porta la carriera di Polanski alla sua vetta assoluta. Mai, infatti, Polanski si è messo altrettanto a nudo. Nemmeno quando recitava nei propri stessi film. Impressionante davvero, specie nell’ultimo atto, la polanskizzazione dell’attore protagonista, Mathieu Amalric. Quanto a Emmanuelle Seigner, beh, è sua moglie. Tutto è già lì: l’uomo è condannato a essere doppio (Amalric/Polanski). La donna (Seigner), è quell’Uno che il Due proietta idealmente fuori di sé.