Cartolina da Cannes (25-26 maggio)

CosmopolisIl notevole Cosmopolis non è un adattamento di De Lillo, è un’appropriazione e un’integrazione. Cronenberg fa del suo protagonista l’incarnazione, o meglio, la disincarnazione del tardo Capitalismo. Corpi decorporizzati dopo aver perso l’anima e una logorrea compulsiva per saturare vuoti di senso (e di tempo). Il tempo presente non esiste (più) e il futuro non è (più) un obiettivo raggiungibile. L’itinerario non ha più un fine e procede a rilento. Spogliando ulteriormente uno stile già asciutto e geometrico (fatto quasi esclusivamente di piani fissi e angolature dall’alto), il regista di Crash riesce a dar forma a quella negazione dell’umano per l’impalpabile, del presente (nei due sensi) per l’assente, che il tardo capitalismo sembra aver realizzato. I dialoghi non evocano ma affermano perentoriamente questa negazione. La violenza, ovviamente gratuita, costituisce l’unico, ultimo, tragico “ritorno” di ciò che resta di umano e di corporeo in una società di ratti e squali. Un film spettrale e funereo, disturbante più per ciò che non può dare che per quello che offre.
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Holy MotorsInizio di carriera folgorante (Boy Meets Girl, Rosso Sangue), ripiego nella maniera (Gli amanti del Pont-Neuf). La parabola di Léos Carax sembrava dover ricalcare quella di molte altre giovani promesse francesi falciate da un sistema cinematografico nazionale implacabilmente istituzionalizzante. Poi però, dopo quel 1992, è seguito uno strano silenzio durato molti anni (interrotto solo da un lungometraggio delirante (Pola X, 1999) e qualche enigmatico corto qua e là), che ha avvolto di mistero la sua figura.
_x000D_Oggi i dubbi sono stati sciolti: Carax è ancora quel grande regista che si auspicava fosse nato decenni fa. Il suo Holy Motors è l’unica sorpresa di questa pochissimo coraggiosa edizione del Festival di Cannes. Protagonista assoluto il suo attore feticcio di sempre: il ferino Denis Lavant. Lo si vede, all’inizio, nei panni di quello che sembra un dirigente altoborghese con famiglia, bimbi piccoli, valigetta e villetta. Fuori da quest’ultima, lo aspetta, come tutte le mattine, una limousine. La segretaria gli dice che quest’oggi ci saranno nove “appuntamenti”. Ognuno di questi “appuntamenti”, in realtà, è un travestimento che lui indossa per calarsi in una data situazione (una vecchia mendicante; un attore alle prese con la motion capture; un padre che va a prendere la figlia adolescente a una festa…), con palese sprezzo dell’assurdo.
_x000D_Fino alla fine, non si sa bene perché il protagonista cambi continuamente maschera. Il film non si cura affatto di spiegare alcunché: si limita a disseminare tracce allusive – e soprattutto a spendersi con generosità in una splendida, incessante contemplazione dei corpi e delle cose in tutta l’enigmaticità che il puro e semplice movimento porta con sé (ecco perché il film è dedicato a Georges Franju – la cui leggendaria attrice Edith Scob è qui la co-protagonista – il quale di questa enigmaticità fu maestro incontrastato). L’incedere pensoso, lento, viscoso, dei personaggi e della macchina da presa suggerisce “epidermicamente” quello che qua e là i personaggi non mancano di enunciare (si fa per dire) “apertamente”: oggi che gli apparecchi di ripresa si fanno sempre più piccoli, e che lo Sguardo dunque tende a scomparire insieme ai corpi che esso dovrebbe guardare, c’è chi non si arrende e si spende in performance fisiche come se fosse guardato da uno sguardo che non c’è. Ecco perché il protagonista vive letteralmente per recitare, per indossare questa o quella situazione totalmente chiusa in se stessa e senza sbocchi ulteriori. Al punto da ridurre una eventuale “vita vera” a nulla più che un ricordo assolutamente imprecisato – salvo per il suo irrimediabile collocarsi nel passato e consistere, prima di ogni altra cosa, in un amore totale (con Eva, interpretata da Kylie Minogue, anche lei impegnata a interpretare maschere su maschere a bordo di una limousine). Dal che consegue una enorme, struggente malinconia (“dobbiamo ancora ridere stasera”: e dopo cinque minuti, inevitabilmente, si ride), che Carax riesce a restituire con tocco davvero magico.
_x000D_Insomma: lo strano fluttuare del film di bizzarria in bizzarria, senza ritmo ma quasi sottovuoto e con un’inventiva ribalda e sempre imprevedibile, è innanzitutto una lacerante nostalgia dell’umano e della macchina. Carax si attacca con tutte le sue forze a quel residuo fisico che la smaterializzazione portata dal digitale non riesce e non può riuscire a macinare: e in questo è programmatica la primissima scena, in cui Carax in carne ed ossa si alza dal letto e vaga come in sonnambula in una sala cinematografica – per tutto il film che segue, la sua macchina da presa abita attonita la separazione da cui contempla il sorgere estraneo e per questo davvero magico del movimento.
_x000D_Ecco perché tra le mille imprevedibili bizzarrie di questo film c’è la motion capture: con il suo avvento, il digitale si è arreso e, anziché simulare i corpi, si è messo al loro servizio perché nulla come loro sa venire posseduto dal movimento. Ecco perché Holy Motors è costellato da (inestimabili) lacerti di pellicola filmati da nientemeno che Etienne-Jules Marey, decisivo progenitore del cinema (ma anche, a suo modo, precursore della motion capture) che aveva inventato una macchina non per riprodurre i corpi, ma per ricostruire le fasi del movimento.
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