
THE DAY AFTER – Hong Sang-Soo
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Il cinema di Hong Sang-Soo è un’eterna rincorsa alla visualizzazione di qualcosa che non si può visualizzare, ovvero la differenza sessuale. Lungo più di vent’anni, Hong cerca di articolare i rapporti tra uomini e donne da un punto di vista apertamente, onestamente e inevitabilmente maschile, e lo fa ripetendo senza posa, al ritmo di quasi un film all’anno, il tentativo inderogabilmente destinato allo scacco di dominare la differenza sessuale attraverso la scrittura. Ecco allora che un film sarà diviso in due parti, ognuna delle quali rappresenterà un punto di vista maschile e uno femminile su una medesima serie di avvenimenti; un altro intreccerà le vicende di uomini di opposto carattere alle prese con una medesima donna affidandosi a un intricato sistema di simmetrie e rime interne; un altro addirittura tenterà di passare dal punto di vista della donna “inghiottendo” quello maschile al proprio interno; e così via. Non essendo possibile dare una forma alla differenza sessuale, nessuna forma sarà mai quella definitiva, e così Hong non può che ripetere sempre lo stesso film (triangoli adulteri, uomini meschini e narcisisti, ambienti medio-intellettuali, minimalismo espressivo e quant’altro) apponendo ogni volta una nuova variazione strutturale.
Poche volte Hong se ne è uscito con una struttura altrettanto intelligente, complessa ed efficace di questa; poche volte, come in questa, Hong è riuscito a smarcarsi da un troppo spigoloso schematismo (rischio che nel suo cinema è sempre dietro l’angolo, ma che viene anche quasi sempre evitato), grazie soprattutto alla suddivisione del racconto in capitoletti di asimmetrica estensione e portata. A sbalordire è già il primo, nel quale vediamo Bongwan (titolare di una piccola casa editrice) uscire di casa e recarsi al lavoro dopo che la moglie lo ha (fondatamente) accusato di adulterio a colazione: a quel punto, il montaggio ci fa scambiare il presente (l’incontro tra il protagonista e una nuova impiegata al primo giorno di lavoro) per il passato (ci viene fatto credere, in sostanza, che quell’impiegata sia l’amante a cui aveva alluso la moglie, e che dunque quello che vediamo sia già avvenuto molto prima), nello stesso tempo in cui intesse una virtuosistica continuità illusoria dentro cui vengono confuse la nuova, innocente impiegata da un lato e l’effettiva ex amante del piccolo editore dall’altro, allontanatasi in precedenza e poi ritornata, visualizzata in frammenti che potrebbero essere indifferentemente flashback o flashforward.
E questo è solo l’inizio. Man mano che la struttura cambia pelle – e in quello che resta del film (più di metà) ciò accade più volte – il proposito di questo intenzionale confondere le carte viene chiarito: le figure femminili vengono rigorosamente confuse tutte tra loro perché per il protagonista (sorta di impietosa epitome del desiderio maschile in generale) esse sono tutte sostanzialmente intercambiabili. Verso la fine si arriva persino al vertiginoso assumere, da parte dell’amante, un ruolo e un complesso di strategie strettamente “coniugali”: utilizzare la deviazione (la nuova impiegata che amante non è, ma che probabilmente sarebbe presto diventata tale) come un’occasione per rinsaldare l’unione.Perché questa intercambiabilità? Perché in un dialogo decisivo in una delle prime scene, la nuova arrivata mette Bongwan davanti a ciò che egli crede senza sapere di credere, ovvero che la realtà sia per definizione inconoscibile; molto presto, diventa chiaro che per lui il femminile stesso è una sorta di estrinsecazione di ciò che genericamente sta “al di là”. È ciò che intendeva Aragon col suo “La femme est l’avenir de l’homme”, che nel 2004 Hong riprenderà nel titolo del suo Woman is the Future of Man (il primo film che Hong presentò a Cannes), dopo la precisazione di Lacan per cui “la donna è il sintomo dell’uomo”. Dunque per quanto il maschile si illuda di imporre il suo sguardo all’altra metà del cielo (“chiamami capo”, impone Bongwan con tipica pateticità alla neo-dipendente), è il femminile che lo guarda da un punto che lo sguardo maschile non può raggiungere, perché è il suo limite; e nella misura in cui è di questa funzione di limite che è questione (come indubbiamente nel caso dell’ombelicale protagonista), una donna vale l’altra. E per la stessa ragione, se la macchina da presa si avvicina ai personaggi molto più di quanto in genere accada nei film di Hong, e se indulge molto sistematicamente nell’oscillazione laterale dal profilo dell’uno al profilo dell’altra nelle numerose occasioni in cui due interlocutori dialogano seduti a un tavolo, è per postulare una simmetria tra i sessi che è solo ed esclusivamente ironica, perché alla fine sarà invece lo squilibrio ad imporsi. Bongwan, infatti, rinuncerà a qualsiasi presa sul femminile e si voterà all’unica donna che rimane fuori campo, l’unico sguardo femminile che lo guarda non visto, perché completamente desessualizzato, e dunque l’unico sguardo femminile capace di porsi al di là dell’interscambiabilità dell’oggetto del desiderio che lo sguardo maschile vorrebbe vampirizzare: lo sguardo della figlia.
Lo hanno detto in tanti: Hong Sang-Soo è l’Eric Rohmer dell’estremo Oriente. E se in passato ci ha dato molti esempi di fruttuosa emulazione di cicli rohmeriani quali i Racconti Morali e le Commedie E Proverbi, The Day After arriva finalmente alla sopraffina stratificazione e varietà di modulazione dei Racconti delle Quattro Stagioni.
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VOTO 8/9