Cartolina da Cannes (24 maggio)

IO E TEAlcuni anni fa, L’assedio (1998) segnò una nuova svolta nel cinema di Bernardo Bertolucci. Dopo essere stato Autore nei decenni del cinema d’Autore, e dopo aver successivamente espanso  (dall’Ultimo imperatore in avanti) l’ampiezza dei suoi proverbiali movimenti di macchina fino ad abbracciare il mondo intero, reinventandosi cineasta internazionalmente co-prodotto e globalizzato, il cineasta parmense tornò a un’ottica ultraminimale. Ottica di cui questo Io e Te è il trionfo, essendo in gran parte girato in uno scantinato – quello dove si nasconde per una settimana il solitario quattordicenne (di ottima famiglia) Lorenzo, in piena crisi puberale, fingendo di essere in gita scolastica sulla neve. È lì che incontra Olivia, poco più grande, sua sorellastra (il padre è lo stesso) con un passato da promettente fotografa schiacciato dall’eroina.
_x000D_Già dai titoli di testa, l’”io” e il “te” non cessano di scambiarsi continuamente le parti. In effetti, mai come stavolta la dinamica di base del cinema bertolucciano è chiara: seguire la deriva estetizzante/narcisista fino all’estremo, guardarsi l’ombelico fino a incontrare al proprio intimo qualcosa che con il “soggetto” non ha più nulla a che fare, qualcosa di estraneo, alieno, respingente come la pietra, irrecuperabile a qualsiasi cosa si voglia chiamare “se stessi”. Solo portando agli estremi la propria deriva solipsista (che non disdegna fantasmi incestuosi), Lorenzo la supera. Meglio: solo incontrando la propria deriva solipsista fuori di sé, sotto forma di Olivia (tossica, infatti), la cui pelle (lo dice lei stessa) è un muro. Per quanto Lorenzo, Narciso dilettante, si eserciti dentro il lavandino a immergersi nella propria immagine senza affogare, non riuscirà mai a specchiarsi in un’immagine di sé; l’unico specchio in un film che di specchi sarebbe straripato se a dirigerlo fosse stato un regista mediocre, riflette non Lorenzo, ma Lorenzo che chiude la finestra poco più in là. Nessuna identità per il soggetto – ma solo l’atto attraverso cui il soggetto ogni volta crede di costituirsi. E ogni volta non è mai l’ultima.
Ecco perché lo spudorato narcisismo cinematografico di Bertolucci finisce (grazie al cielo) per superarsi nella misura in cui sullo schermo non ci finisce lo “stile” del “Grande Autore”, ma uno stranissimo vuoto pneumatico (quello del soggetto che si immerge nello specchio fino a non riconoscersi più) attraversato di tanto in tanto da scosse registiche, accensioni visuali che fanno balenare il fantasma della Bellezza fluttuante letteralmente sul nulla. Una ricerca della Bellezza che non finisce mai e ricomincia sempre scintilla dopo scintilla (ogni volta non è mai l’ultima), una specie di “buddismo mancato” (se ne rende conto Olivia stessa: vorrebbe essere buddista ma sta sempre incazzata, non può dirsi tale) che corteggia costantemente il nulla ma incontra continuamente una rimanenza inassimilabile. E questa rimanenza che brilla nel vuoto, è la Bellezza.
_x000D_Bellezza che Bertolucci non si stanca mai di cercare, incurante di qualsiasi altra cosa. Per questo ha molto più a cuore trovare attori dalla fisionomia perfetta (Jacopo Olmo Antinori, Tea Falco) che dirigerli (uno spaesato Pippo Delbono, una Sonia Bergamasco che non sembra la brava attrice che quasi sempre dimostra di essere). Non è nemmeno più indispensabile costruire i virtuosistici movimenti per cui la sua macchina da presa è giustamente famosa: nello spazietto di quello scantinato, il movimento è tutto mentale, sono le scintille che gli occhi producono nel non incontrare l’immagine allo specchio di colui al quale quegli occhi appartengono. Se Lorenzo trova finalmente il mondo esterno è perché si chiude fino a trovare quel punto in cui non può continuare a chiudersi oltre – meglio: trova fuori di sé l’immagine del proprio chiudersi. Una specie di Edipo che si risolve non risolvendolo, ma portando al limite l’impossibilità della sua risoluzione. Non una cosa da poco in un Paese che sembra un monumento a cielo aperto all’impossibilità di superare Edipo, un Paese che sembra eternamente bloccato in un’eterna adolescenza, giustamente rappresentato per una ventina d’anni da una “elite” “istituzionale” che ha dato prova di clamorosa immaturità sessuale vantandosene pubblicamente.