
MOMMYCi si era illusi, dopo l’intelligentemente onirico, lodevolmente sommesso Tom à la ferme, che Xavier Dolan si fosse deciso ad abbandonare il suo stile ruffiancello e sopra le righe, suggestivo ma dal fiato corto (per non dire pretenzioso).
_x000D_E invece no. Non contento di riproporre musica “piaciona” a palla, immagini al rallentatore, sgargianti accensioni cromatiche e quant’altro, il giovane regista canadese impernia il suo Mommy su una trovata di quelle facili facili: il formato dello schermo (un inusuale 4:5) si restringe fino a diventare una striscia verticale. Non che la cosa giunga completamente inaspettata: Dolan è uso da sempre piazzare/piantare i personaggi (che non di rado, peraltro, guardano in macchina) al centro dell’inquadratura, rinunciando di fatto alla costruzione di uno spazio propriamente cinematografico per accontentarsi invece di uno solamente “centripeto”.
_x000D_Dietro a questo, c’è una ragione precisa: fondamentalmente, è l’immagine allo specchio che gli interessa, e solo quella. Al di là dei quattro bordi dello specchio (o dello schermo “ristretto”, che lo mima), è come se il mondo non ci fosse. E Mommy, appunto, racconta due personaggi imprigionati in un narcisismo asfittico e autoafferente privo di scampo (e che si imprigionano gioiosamente l’un l’altra in esso): l’adolescente turbolento Steve (da prendere a schiaffi e/o da mandare in miniera) e la squinternatissima madre (vedova) Diane. Principalmente, il film segue i due sbrodolare dialoghi e monologhi in cui entrambi si crogiolano della e nella vistosa assenza di qualunque principio di “autorità paterna”. Quest’ultimo, semmai, viene assunto da una donna, la vicina di casa Kyla, insegnante che si avvicina ai due fino a formare con loro un inusuale triangolo.Tra continui primi piani, strizzate d’occhio, parossismi melodrammatici, rovesciamenti drammatici di plateale pretestuosità e gratuità, Mommy si immerge nel cul-de-sac emotivo dei suoi personaggi variamente borderline, enfatizzando la loro irrimediabile lontananza da qualsiasi integrazione sociale minimamente regolare. Un paio di volte, la possibilità che Steve raggiunga finalmente questa integrazione balena miracolosamente, e di conseguenza il formato dell’immagine si riapre e riallarga. Ma è un sollievo solo momentaneo: l’incontro col mondo è sempre e comunque sterilmente ostile, e dunque subito dopo la prospettiva visuale si restringe di nuovo e ritorna “ombelicale”, su misura del bozzolo in cui i personaggi patologicamente si rinchiudono.
_x000D_Non c’è dubbio: la disfunzionalità della situazione e dei personaggi viene restituita da Dolan con mezzi espressivi sicuramente, sottilmente e “clinicamente” adeguati. Può lasciare perplessi (e sicuramente lascia parecchio perplesso il sottoscritto) lo sbracato compiacimento con cui lo fa, così come l’insistenza con cui l’enfant prodige del Quebec vuole a tutti i costi farci amare, facendoci ridere e soffrire con loro, personaggi che, francamente, non se lo meritano.
Sils-MariaIl futuro non è più quello di una volta. Olivier Assayas ci aveva già provato dodici anni fa a ritrarre il nostro presente “postmoderno” in relazione a una modernità ormai tramontata. Il risultato, Demonlover, era assai problematico ma molto affascinante; tra le varie magagne spiccava senz'altro la patina di “futuribilità” che il regista francese aveva un po' appiccicato al suo film con lo scotch.
_x000D_Oggi che è sotto gli occhi di tutti che il futuro assomiglia molto di più a una palude che ai luccichii hi-tech immaginati da un passato che sembra già lontanissimo, Sils-Maria rigioca in maniera molto più convincente la carta del ritratto allegorico del presente, attraverso la riscrittura aggiornata di una pietra miliare del tardo-moderno: Persona di Ingmar Bergman.
_x000D_Pieno di echi che rimandano direttamente al Maestro svedese (con il quale, peraltro, Assayas realizzò anni fa un libro-intervista), questo lungometraggio segue Maria, attrice chiamata a rendere omaggio a un noto regista appena suicidatosi. A quest'ultimo, Maria deve la propria carriera: la fece debuttare sullo schermo diciottenne nel ruolo di Sigrid, amante di una matura donna di successo (Helena) che viene gradualmente spinta alla follia e alla rovina dalla giovane, arrivista “gatta morta”. Un altro regista la contatta per riportare in scena la stessa storia: l'età di Maria, però, la predestina ora al ruolo di Helena (ruolo che già spinse al suicidio un'altra attrice, incapace di distanziarsi a sufficienza dalla parte che doveva interpretare). Per preparare il proprio ruolo, Maria si ritira dunque nella casa sulle Alpi elvetiche che fu del suo deceduto mentore, insieme a una giovane assistente americana. Le due parrebbero riportare in vita il gioco al massacro psicologico tra Sigrid e Helena…… ma non è così. Non è più tempo di Persona – e non solo perché imperversano iPad, telefonini e internet. Non c'è più fusione conflittuale tra donna giovane e donna matura: Maria è (e/o diventa) entrambe, e l'assistente non fa nulla più che il suo lavoro, che è quello di scomparire per agevolare questa coincidenza nella sola Maria (servita in questo da una Juliette Binoche raramente così brava: controllatissima ma pronta a esplodere in emorragie fugaci di infantilismo). Nell'epoca che la vulgata che ad Assayas per qualche ragione continua a piacere così tanto chiama postmoderna, non c'è più la conflittualità tra diverse faglie temporali, ma giusto la loro coesistenza pacificata. Sul palco dove nel finale si terrà la pièce, le età coesistono orizzontalmente.
_x000D_Non c'è conflitto dunque, bensì, letteralmente, ordinaria amministrazione. E la regia di Assayas si inventa un registro perfettamente adatto a questa nuova esigenza: rinuncia alla sua proverbiale frenesia cinetica, appiana tutto e lavora solo di rifiniture. Al posto del conflitto, si ha giusto un po' di movimento che si lascia passare a lato dell'apparentemente immobile coesistere geologico di tempi diversi: come nuvole di passaggio in mezzo alle montagne.