
SHAN HE GU REN (Mountains May Depart)
Jia Zhang-KeShan he gu ren (Mountains May Depart) di Jia Zhang-Ke ha segnato l’autentico giro di boa del Festival di Cannes 2015. Con un capolavoro del genere, diventa evidente che si comincia a fare sul serio.
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Nel 2000, Jia aveva stupefatto il festival di Venezia con Zhantai (Platform), pellicola che prendeva in contropiede il vertiginoso sviluppo cinese chiarendo che il perpetuo sradicamento che è per definizione il capitalismo in realtà sradica tutto e non sradica nulla, perché non fa che ricalcare e usurpare la forma del tempo. Quindici anni dopo, Jia ritorna su Platform spalmandolo su quelle tre fasi distinte che siamo soliti identificare con “passato”, “presente”, “futuro”. 1999: la modernizzazione capitalista, e di conseguenza la lotta di classe, in forma di “lui, lei e l’altro”, di un triangolo amoroso che ha un luogo in un piccolo centro della regione cinese dello Shanxi. 2014: il vertice debole del triangolo soccombe, ma gli altri due pure si separano, perché lui, entrato nel frattempo nel mondo della finanza globale e diventato ricchissimo, è ormai troppo in orbita per lei, che non disdegna di conservare un qualche legame con le sue radici nel villaggio. Nel 2025 è la volta della generazione successiva, del loro figlio che studia in Australia e che ha nostalgia di una terra e di una madre ormai abbandonate da anni.
È ovvio che il cuore di questa perfetta allegoria della parabola capitalista, tracciata da un luogo che come nessun altro oggi è punto di osservazione privilegiato su di essa (poiché la Cina è ancora nel pieno del suo dispiegarsi), non è nella pur precisissima corrispondenza simbolica dei suoi elementi (il figlio dei due protagonisti si chiama nientemeno che Dollar), ma nella maniera in cui il tempo viene trattato e portato sullo schermo. Nella prima parte, quella della fase ascendente, il dramma si dispiega in forme molto lineari: macchina da presa che si muove poco, abbondanza di piani medi, personaggi che entrano in campo da fuori, anziché essere raggiunti dalla cinepresa. Incidenti (camion che si rovesciano, aerei che si schiantano, tamponamenti automobilistici) e esplosioni (petardi, fuochi di artificio) puntellano il susseguirsi delle scene, verticalizzato narrativamente in maniera piuttosto tradizionale. Poi, a un’ora di proiezione, un cartello col titolo del film (!). E tutto cambia. Lo schermo si allarga, i movimenti di macchina si fanno incalcolabilmente più frequenti, però lentissimi, leganti l’un l’altro gli elementi del set sotto il segno di un costante sospetto di erosione, di un insinuante livellamento verso la mera coesistenza nello spazio, che va progressivamente a rimpiazzare l’articolazione drammaturgica nel tempo. Nel primo, “quasi teatrale” segmento, infatti, una tale articolazione è ancora significativamente rinvenibile, assai più che in quelli successivi. In esso, peraltro, sono presenti immagini girate nel 2001, a ridosso di Platform, con un digitale visibilmente diverso da quello utilizzato ora. Una tale stratificazione di materiali provenienti da tempi diversi, naturalmente, non fa che acuire il senso di malinconica disgregazione emanato da questa autentica archeologia della velocità capitalista, trattata né più né meno che un relitto.
_x000D_Se il capitalismo è essenzialmente spazializzazione del tempo, Jia lo ripaga con la stessa moneta: ne approccia la parabola di taglio, in sezione anzi (una delle battute ricorrenti del film: “tu sei un problema di algebra o di geometria?”), facendo coesistere su un medesimo piano le sue diverse fasi temporali, la crescita come la stagnazione. Si incolla al suo movimento disgregativo, ma unicamente per concentrarsi su ciò che invece rimane immutato attraverso di esso: il film finisce con la torre nello Shanxi rimasta uguale da più di venticinque anni. Sempre nella terza parte, non è per caso che viene esplicitamente invocato l’eterno ritorno: si torna eternamente a mancare l’origine, come in Platform quindici anni fa, così oggi in Shan he gu ren, col suo geniale triangolo edipico in cui il figlio trapiantato in Australia si innamora di una donna più anziana che è non solo e non tanto una madre putativa, ma una ripetizione in carne ed ossa delle impasse coniugali che hanno segnato la vita dei genitori.
_x000D_VOTO: 9_x000D_
AMNESIA
Barbet SchroederE colpisce davvero come il topos del giovane attratto da una donna matura lontano dalla propria patria ritorni pure in un’altra delle migliori opere viste al festival: Amnesia. Ritornando ad Ibiza (dove esordì dietro la macchina da presa con More) dopo più di quarant’anni, Barbet Schroeder firma uno straordinario apologo sulla Germania, sulla condanna all’incapacità di fare i conti col proprio passato e sul cronico mancare l’appuntamento con la Storia, ovvero con quei decisivi momenti di transizione (1945, 1989…) che finiscono fatalmente per rimanere irrisolti. La condizione tedesca, sembra dirci Schroeder con questa ambigua amicizia tra un giovane teutonico aspirante DJ e un’ormai attempata connazionale sull’isola iberica nel 1990, è l’esilio, e segnatamente l’esilio in una sorta di limbo post-romantico (poteva essere altrimenti?) sospeso esattamente a metà tra il sublime e il kitsch. Ciò che fa la forza di Amnesia è la visualizzazione di questo limbo, rispetto alla quale Schroeder fa tesoro di quell’altro suo superlativo esperimento digitale che fu La vergine dei sicari (2000): usando per la prima volta una videocamera a risoluzione 6K in un film europeo, Luciano Tovoli (non certo uno di passaggio) trova una tavolozza miracolosamente iperreale e insieme irreale, correlativo perfetto dello spaesamento perpetuo vissuto dai protagonisti, di un esotismo imbarazzante ma dannatamente serio.
_x000D_VOTO: 8.5