Cartolina da Cannes (21/05/2017)

LES FANTOMES D’ISMAEL (Arnaud Desplechin)

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Gli egocentrici veri, non si esibiscono. Piuttosto, trovano una maniera di esibirsi nascondendosi. Lo ha fatto spesso, Arnaud Desplechin, costruendo intorno a protagonisti egocentrici (interpretati dal fedele Mathieu Amalric) molti dei propri film, i quali non di rado nascondono dietro alla finzione palesi spunti autobiografici.
Che la finzione sia una foglia di fico sempre più stretta dietro a cui nascondere una spinta ad autoraccontarsi sempre più ingombrante, Les fantomes d’Ismael ce lo mostra con molta chiarezza. Esso infatti comincia con una strana storia di spionaggio – che nel giro di pochi minuti viene rivelata essere il film che sta realizzando l’eponimo protagonista, un regista abbastanza squinternato che, durante una vacanza al mare insieme alla compagna, viene visitato da una sua ex che credeva morta, e che finisce per sconvolgere la sua vita. Ma attenzione: anche “quel film” dura solo pochi minuti, perché la sostanza drammatica di quel triangolo viene meno nel giro di giusto qualche scena, scomparendo del tutto quando tutti abbandonano la villeggiatura e tornano in città.
Qui il pensiero torna a Trois souvenirs de ma jeunesse, l’appena precedente opera di Desplechin, la quale chiariva diversi aspetti che nel resto della sua filmografia erano rimasti relativamente opachi. Uno di questi è che per l’alter ego solitamente interpretato (come qui) da Amalric, le donne hanno sostanzialmente poca importanza, perché è lui ad averne troppa agli occhi di se stesso. In Trois souvenirs, egli racconta a se stesso che un improbabile amorazzo adolescenziale lo avrebbe segnato per la vita, e che per decenni, anche nel corso di altre relazioni, in realtà ha pensato sempre e solo a lei – ma è evidente che si tratta di un’idea totalmente auto-assolutoria e de-responsabilizzante, un attaccamento puramente narcisista al fantasma di qualcuno che va di pari passo con il totale disinteresse verso quella medesima persona.
Anche in Les fantomes d’Ismael, l’altro sesso si conferma ricoprire un’importanza solo relativa. Una volta polverizzatasi la foglia di fico dello spionistico film-nel-film (che continueremo a vedere a sprazzi fino alla fine, e che è facile leggere come un “anagramma” di molte delle situazioni attraversate dalla vita dello stesso Ismael), si scioglie quasi subito come neve al sole anche il triangolo amoroso tra Ismael e le due donne. Perché Carlotta, la donna che tutti credevano morta e che ritorna inaspettata, per Ismael non è altro che una pedina nel rapporto, per lui ben più fondamentale, tra lui e Ivan, il padre di Carlotta. Perché il rapporto con l’affermato cineasta Ivan è, per Ismael, il rapporto tra sé e se stesso, tra sé e la propria immagine ideale. Con il ritorno di Carlotta, questo rapporto deraglia irreparabilmente.
Grazie a questo deragliamento, il film può davvero diventare se stesso: venuta meno non una ma due volte consecutive la finzione come limite apposto all’autoesibirsi del raccontare (attenzione: non del racconto, né del narratore, ma del raccontare, cioè di qualcosa che prende dentro entrambi), il raccontare può, appunto, autoesibirsi. Il film, cioè, può concentrarsi sull’infinito imbricarsi dei molteplici piani del racconto, che Ismael non domina più: egli, infatti, viene risucchiato in un delirio solipsista a causa di cui il suo film-nel-film gli si gonfia tra le mani fino a inglobare una serie spropositata e finanche esoterica di riferimenti (da Pollock alla storia delle religioni monoteistiche), e di livelli narrativi più o meno autobiografici. Le riprese diventano un incubo, e la realizzazione del film di Ismael diventa un processo virtualmente interminabile – e, coerentemente, nemmeno Les fantomes d’Ismael trova una conclusione, rimanendo invece aperto. Come il film di Ismael, il film di Desplechin accetta a questo punto di sciogliersi in una miriade di direzioni. Il racconto, insomma, anziché chiudersi esibisce il proprio stesso funzionamento. Il processo aperto rimpiazza l’opera compiuta, perché apporre una vera conclusione a un’opera è qualcosa che possono fare solo i registi “veri”, gli Ivan, ovvero precisamente ciò che Ismael, dopo la riemersione di Carlotta, definitivamente non può più essere. Orfano della possibilità di realizzarsi come uomo e come regista, a Ismael rimane solo la direzione contraria: esasperare la proliferazione emorragica delle ramificazioni narrative. Abdicare al controllo, e arrendersi a un processo che può essere solo infinito. Perché quella che saremmo portati a equivocare come furia creatrice, in realtà è la punta dell’iceberg di qualcosa che definisce il tipico personaggio Amalrichian-desplechiniano molto, ma molto più alla radice, ed anche in questo caso si tratta di un processo ugualmente infinito, asintotico e interminabile, perché impossibile: partorire se stesso, e sostituendosi alla creazione esorcizzare il femminile.
Lo sa bene la sua compagna, che si accontenta di fare della propria morigeratezza protestante una devota e diligente forza di contenimento alla vulcanicità di Ismael. Non potendo aiutarlo a partorire se stesso, ripiega dandogli un figlio, anche se nella testa egocentrica di Ismael questo ha probabilmente meno importanza del fatto che tanto nell’Annunciazione del Beato Angelico quanto nei Coniugi Arnolfini di Jan Van Eyck (due immagini da cui è ossessionato), la questione della prospettiva centrale si intreccia con quella della fertilità femminile.

_x000D_VOTO: 7.5

OKJA (Bong Joon-ho)

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Parte forte, Okja. Le idee migliori, se le gioca quasi tutte sui titoli di testa, quando vediamo Lucy, mogul di una gigantesca multinazionale, annunciare un’operazione di riciclo dell’immagine della sua Mirando corporation in chiave “eco-friendly”. Molto sinceramente preoccupata della fame nel mondo (come no?), la Mirando intende subappaltare a 26 allevatori di tutto il mondo lo sviluppo di un esemplare porcino scoperto di recente, miracolosamente nutriente e miracolosamente naturale. Ovviamente, il tutto è presentato con impietoso sarcasmo, a sottolineare che l’ecologismo d’accatto è solo la foglia di fico con cui si copre l’immane sfruttamento delle risorse messo in opera da organismi finanziari in avanzata fase di globalizzazione e post-fordizzazione (Lucy dichiara, papale papale, che quel relitto del passato che è la fabbrica è Il Male In Terra). Starbuck insegna – ed è infatti proprio l’insegna di Starbuck a campeggiare “casualmente”, più avanti, sullo sfondo di una delle scene-chiavi del film.
I dubbi, tuttavia, non si fanno aspettare. Arrivano già subito dopo i titoli, quando ci viene presentato Okja, l’esemplare che nelle montagne coreane sta venendo allevato dalla piccola Mija insieme al nonno. Non che le scene di idillio faunistico in mezzo ai boschi tra la bambina e l’enorme suino non siano ben fatte – tutt’altro. Il problema è altrove: se il film è cominciato affermando (giustamente) la continuità dialettica tra lo strapotere delle corporation globali e la posticcia esaltazione dell’autenticità, di ciò che è “naturale”, “organico” e così via, e mettendo bene in chiaro che quell’esaltazione è direttamente funzionale a quello strapotere, perché mai il film cerca, subito dopo, di farci parteggiare per la bambina che amorevolmente alleva la creatura tra alberi e ruscelli CONTRO l’asettico nemico nei palazzi del potere finanziario che vuole rubarle l’ingombrante animale? Perché, insomma, Okja vuole che lo spettatore prima prenda coscienza di questo circolo vizioso ideologico per cui l’opposizione “local” è direttamente funzionale al sistema “global”, e poi lo spinge a schierarsi a favore della prima contro il secondo?
Ma a uno che ha fatto The Host e Snowpiercer, il beneficio del dubbio lo si accorda volentieri. E quindi si prosegue con la visione, nella speranza che questa apparente incoerenza di approccio si ribalti in punto di interesse, e si riveli un tentativo di mettere a nudo le contraddizioni dell’ideologia dominante. Era questo, ad esempio, il caso di The Host, dove istanze filo-americane e “indipendentiste” si intrecciavano in una vertiginosa spirale dialettica, dove dietro alle une si nascondevano sempre le altre, escherianamente.
Nel caso di Okja, purtroppo, non è così. La nuova opera di Bong Joon-Ho si riduce ahinoi a un intrigante e ingegnoso disegno allegorico che non viene sviluppato in modo adeguato. Ecco dunque che il racconto incappa in pesanti rallentamenti (quasi sempre quando Mija, personaggio già di suo tutt’altro che esaltante, scompare di scena), o viene pompato gratuitamente con qualche inseguimento buttato là, o viene sciolto da risoluzioni narrative che fanno cadere le braccia (come quella grazie a cui, nel finale, il maiale viene restituito a Mija).
La magagna principale, tuttavia, è di merito e non di metodo. A metà film, Lucy ci offre su un piatto d’argento la chiave dell’intera operazione. “Io”, ci dice mettendo le mani davanti all’obbiettivo e intrecciandole l’una all’altra, “ho preso la scienza e la natura e le ho sintetizzate”. È questo, notoriamente, il sogno di chi tiene in mano le redini del nostro mondo post-industriale. Bong avrebbe voluto realizzare un film che sta su posizioni contrapposte, ma avrebbe potuto farlo solo fornendo una maniera di articolare scienza e natura alternativa rispetto alla sintesi. E invece si accontenta della sintesi: davanti a un uso massiccio (e pregevole sotto molti aspetti) del digitale, Bong sceglie (a differenza di quanto accadeva in The Host, in cui tale utilizzo era deliberatamente stridente – come stridente era l’uso dell’humour, qui invece integralmente “pacificato”) la via di una sua integrazione armonica nell’immagine. Ma in questo modo non fa che usare in modo assolutamente acritico le armi del nemico.
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_x000D_VOTO: 5.5