Vero contraltare della competizione, la Quinzaine de Réalisateurs da anni scansa l’istituzionalità, essendosi imposta come la sezione in cui confluiscono i titoli di registi affermati più radicali e meno concessivi, accanto a proposte d’autore, provenienti dalle cinematografie più disparate («È sempre stata la patria del cinema e il luogo dell’immaginazione» Werner Herzog).
Mentre la bellissima sigla ci ricorda tutti i nomi che in questi anni sono passati di qui (e ci sono davvero tutti: da Noé a Dumont, da Chazelle ai Dardenne, da Ivory ai Taviani) il quadro 2019 è quello di una selezione sempre molto libera, coraggiosa, in perenne movimento, come testimonia la nuova gestione affidata all’italiano Paolo Moretti.
Segnata dall’omaggio a John Carpenter (incontro con Bertrand Bonello e Yann Gonzalez e proiezione di The Thing), dalla masterclass di Robert Rodriguez, dal mediometraggio di Luca Guadagnino The Staggering Girl (un gioiello finemente citazionista che trasforma il fashion movie di partenza, dedicato alla collezione di Valentino, in un nuovo saggio di cinefilia astratta) e dal progetto VR di Laurie Anderson, quest’anno la Quinzaine ha sfoderato il solito allettante programma.
Se nulla posso dire di The Lighthouse di Robert Eggers perché impossibilitato a entrare in sala (folle davvero oceaniche e pronte a tutto, per le due proiezioni dell’opera seconda dell’autore di The Witch, interpretata da Willem Dafoe e Robert Pattinson, accolta in maniera schizofrenica dalla critica) e se non posso che ribadire il fascino ammaliatore di Zombi Child di Bonello, a conti fatti uno dei titoli più importanti dell’intero Festival, mi preme segnalare almeno due opere rilevanti.
A cominciare da quello che (non immotivatamente, devo dire) è stato subito definito il Call Me By Your Name georgiano, And Then We Danced di Levan Akin: Merab si allena fin da piccolo nell’ensemble di ballo nazionale georgiano. Il suo mondo è improvvisamente sconvolto dall’arrivo di Irakli destinato a diventare contemporaneamente il suo più forte rivale e il suo più grande desiderio. La danza in questo film, non è solo un contesto, incarna soprattutto lo spirito della nazione georgiana, della sua tradizione: in questo senso la nascita del rapporto omosessuale all’interno della scuola costituisce un doppio affronto all’istituzione. E Akin rende con sfumatura di toni e con una indiscutibile capacità melodrammatica l’evolversi del sentimento dei protagonisti e il loro contrastato confronto con un ambiente che determinerà alla fine, scelte dolorose.
Sentito, commovente, molto bel diretto, il film pecca solo di qualche lungaggine, ma ha tutti i numeri per fare strage di cuori.
Altro titolo forte – e personale colpo di fulmine al Festival – è Une fille facile di Rebecca Zlotowsky: il rinnovato incontro tra due cugine – una al traguardo decisivo dei 16 anni e indecisa sulla strada da intraprendere – avviene sotto il sole di un’estate cannense. Zlotowsky parla di una stagione decisiva della vita, della scoperta del proprio corpo e del potere che conferisce, della dialettica deformata tra i sessi: politico, sentimentale, metaforico, cinefilo. Adorato, se ne riscriverà in occasione dell’uscita italiana in sala (un augurio).
Meno rilevante Oleg di Juris Kursietis: il protagonista, un immigrato lituano, spera di farsi una vita macellando carni a Bruxelles, ma, calunniato da un collega, perde il lavoro e viene raccolto da una cricca di delinquenti polacchi. Se lo stile (camera addossata al protagonista, registro visivo sporco, fotografia livida) sa di comodo cliché simil-realista e se lo script a volte perde lucidità, va riconosciuto a questa parabola cristologica la resa a tratti molto efficace della trappola kafkiana nella quale il protagonista si viene a trovare. Soffocante ancor di più se si riflette sul fatto che parliamo di una storia vera.
Al film di Kowalski di cui abbiamo già detto, la sezione affiancava anche l’ultimo di Miike Takashi (Hatsukoi – First Love) e la follia controllatissima del solito, inaggettivabile Quentin Dupieux che in Le Daim (capolavoro) scompagina ogni livello: non c’è più realtà né finzione, tutto si reinventa in chiave cinematografica in un’opera che dice l’ovvio che nessuno direbbe, nella maniera meno ovvia possibile.
Nelle altre sezioni vale la pena segnalare il (sacrosanto) vincitore della Semaine de la Critique, la stupenda animazione di J’ai perdu mon corps, tratta da un romanzo di Guillaume Laurant e il clamoroso fuori concorso di Lux Æterna di Gaspar Noè, pura aggressione sensoriale, sfrenata, impudica, senza cervello e senza freni inibitori. Dolore per gli occhi, nel finale letteralmente bombardati fino alla cecità, e gioia nel cuore, disimpegnato definitivamente dagli inutili rovelli della mente. Il 10, al Festival, è suo.