CARTOLINA DA CANNES 2019 – PEDRO ALLO SPECCHIO

Una serie di ricongiungimenti di Salvador Mallo, un regista cinematografico oramai sul viale del tramonto. Alcuni sono fisici, altri ricordati: la sua infanzia negli anni ’60 quando emigrò con i suoi genitori a Paterna, un comune situato nella provincia di Valencia, in cerca di fortuna; il primo desiderio; il suo primo amore da adulto nella Madrid degli anni ’80; il dolore della rottura di questo amore quando era ancora vivo e palpitante; la scrittura come unica terapia per dimenticare l’indimenticabile; la precoce scoperta del cinema ed il senso del vuoto, l’incommensurabile vuoto causato dall’impossibilità di continuare a girare film.

A un primo livello il film narra della sofferenza fisica e dell’impossibilità di lavorare del regista protagonista (Salvador Mallo: anagramma imperfetto di “Almodóvar”, le lettere in più ci segnalano che non c’è precisa coincidenza tra autore e personaggio?) che, di fronte alla proiezione celebrativa di un suo film, Sabor, si riconfronta con Alberto, l’attore che lo interpretava. Dunque col suo passato. Nel momento in cui sembra trovare un sollievo effimero nell’eroina, reincontra Federico, il suo grande amore, che per caso assiste a teatro alla rappresentazione del monologo Adicción, in cui Salvador parla della loro relazione. Invece di portarselo a letto e consentire all’antica ferita di continuare a suppurare, il regista decide di chiudere con un finale dignitoso e davvero risolutivo la relazione più importante della sua vita. È il momento in cui la parabola svolta, quello nel quale il protagonista ritrova la strada, riprende il comando della sua vita: fine dell’adicción. Fine della dipendenza. Dal ricordo di Federico e dalla droga: perché il mettere ordine nel proprio passato permette a Salvador di pervenire alla serena accettazione della propria solitudine (o, per dirla fellinianamente, della sua grande confusione) e di pervenire a un percorso medico e terapeutico tradizionale. E di riconciliarsi con una figura materna da sempre vissuta problematicamente e di cui conserva un ricordo tenero degli ultimi giorni (l’uovo di legno: rosebud). Infine: di tornare al cinema, unica dipendenza sana, complice il ritrovamento casuale di un altro pezzo di passato decisivo, lo schizzo di un ritratto che gli aveva fatto un muratore analfabeta al quale Salvador bambino aveva insegnato a leggere e scrivere.

Dolor y gloria, accanto al livello in cui il regista Salvador si dibatte tra vita vissuta e creazione, ne presenta un altro in cui si mostra l’infanzia del protagonista come se il passato fosse il frutto di una visione, ispirata man mano da circostanze diverse (lo sniffare eroina, per esempio). Il primo di questi (apparenti) salti all’indietro, quello che avviene all’inizio, al momento dell’immersione nella piscina “amniotica” (con il dettaglio rimarcato, e non certo casuale, di una cicatrice: ci indica che siamo a un momento avanzato della narrazione, allorquando l’operazione chirurgica di cui si parlerà è stata già effettuata), ci porta allo sguardo bambino di Salvador sulle lavandaie. Ma quello che vediamo non è un flashback, è il pezzo di un ricordo che si muove in una dimensione atemporale che, centellina momenti di vita vissuta, svuotandoli dal puro memorialismo per farne fantasmi messi in scena. Perché di messa in scena si tratta. Tutte le sequenze che riguardano l’infanzia sono frutto di contraffazioni del ricordo, sono riletture alla luce del presente (ci torno), la manipolazione artistica di eventi che non vengono semplicemente evocati, ma ricostruiti secondo le logiche trasfiguranti del cinema. In quei momenti non si propone il passato, lo si reinventa. Sarà il finale del film a confermarci che, non di passato si tratta, ma del livello più avanzato nel tempo, quello in cui il percorso di Salvador, culminato nel ritrovamento del ritratto, ha condotto alla composizione di una sceneggiatura finalmente messa in scena: El primer deseo. Non flashback, ribadisco: il contrario, flash-forward. E a questo livello quello del muratore nudo è il riallestimento di un’immagine fondativa fortissima (Salvador bambino sviene) che ieri rivelava al protagonista un’identità, oggi gli consente di riappropriarsi delle origini del suo mondo poetico, trovando in esso l’energia e l’ispirazione per tornare a fare cinema (proustianamente: Salvador passa dal tempo perduto al tempo ritrovato). Un mondo poetico in cui lo sguardo della madre, e il valore colpevolizzante che il bambino (e poi l’uomo) gli ha attribuito, si rivelano fondamentali. Per questo parlavo di riletture (eccoci): la reazione della madre che vediamo (la tinozza che segnala l’abluzione del giovane la allarma) è il frutto della ricostruzione che il regista (Salvador/ Pedro) fa dell’episodio. La madre capisce tutto al volo, comprende il serpeggiare del desiderio (e infatti non farà mai avere lo schizzo al figlio), ma, a posteriori, dell’episodio è importante il modo che il regista sceglie per raccontarlo. Lo sguardo di ammonimento, insomma, non è della madre, è quello che l’uomo-divenuto-regista attribuisce alla madre mettendolo in scena, cioè quello che ha percepito su di sé dall’infanzia: quella critica implicita, quel rimprovero muto, quella incomprensione mai elaborata che hanno determinato una distanza ineffabile tra genitrice e figlio, come rivelato dal confronto con la madre “vera” (interpretata da Julieta Serrano).

Perché non è certo un caso se nella rappresentazione cinematografica il padre improvvisamente scompaia e la madre del regista sia incarnata da Penélope Cruz: se il protagonista, Salvador (/Pedro), è avvinto dallo stardom hollywoodiano – Marilyn Monroe, Natalie Wood – non può che riportare l’incarnazione del personaggio materno alla diva spagnola per antonomasia, da Almodóvar stesso, peraltro, consacrata come tale (in Volver – dove a sua volta si ispirava a Sophia Loren – e in Gli abbracci spezzati). Come dire che se nella realtà la madre è l’antitesi della star, una donna fisicamente comune, nella ricostruzione diventa una creatura fatta di carne cinematografica doc: riconoscibile, emblematica, bellissima, divistica.
Il discorso attoriale è del resto fondamentale nell’opera dello spagnolo, usandolo spesso in chiave significativa e autoriflessiva. Così per Volver il regista faceva tornare (non solo simbolicamente) Carmen Maura dopo anni e anni (superando anche un conflitto con l’attrice): presenza emblematica di tutto il primo periodo dello spagnolo, in quel film il personaggio da lei interpretato letteralmente resuscita (più chiaro di così…). Anche in La pelle che abito – ovvero: il cinema che abito – la presenza dopo anni di quello che era stato il primo cittadino della metropoli Almodóvar, Antonio Banderas, era significativa. E lo è ancor di più oggi per questo film che lo vede nelle esplicite vesti di un alter ego.

Non certo una novità per un autore che il discorso cinematograficamente autoriferito lo pratica fin dagli albori: La legge del desiderio non era già, ben prima di questo, il suo ? E non parte subito con l’inganno di un film nel film? Non è proprio La legge del desiderio – con Carmen Maura nella parte di un transessuale operato – il film a cui si allude in Dolor y Gloria? Quel Sabor che ha più di trent’anni (calendario alla mano ci siamo)? Azzardo: e se il personaggio di Alberto, l’attore di Sabor con cui Salvador aveva litigato e che lo instrada all’eroina, non fosse altri che Carmen Maura in disguise? E La mala educación non anticipava quest’ultimo in quel suo narrare a cerchi concentrici, in cui livelli di racconto/ricordo si scoprono essere artifici di set cinematografici? Ma non è sempre stato così nel cinema dello spagnolo che è un’opera unica sempre aggiornata in cui elementi di ciascuna sua parte si ritrovano nelle altre? Lo stesso Adicción non è già presente in Parla con lei? E Antonio Banderas non aveva già interpretato il figlio di Julieta Serrano in Donne sull’orlo di una crisi di nervi e Matador (foto)?
Ed è bello poter pensare agli ambienti dei due gradi narrativi e alla loro art direction in chiave metaforica (come già in Julieta, del resto): l’appartamento del regista è una dimensione mentale, rappresentata come un museo personale, lo specchio di una situazione interiore, non a caso popolata da quadri simbolici ed evocativi. La grotta (la casa dell’infanzia) presenta invece il livello sotterraneo (per l’appunto), il fondamento della persona psichica e delle sue pulsioni: l’inconscio; non a caso è qui che ritroviamo l’origine del primo desiderio; e quelle piastrelle colorate, differenti, disordinate, ma a loro modo armoniose, sono una traccia tangibile di un immaginario in formazione, un pezzo di sguardo che ritroveremo nel suo cinema.