CARTOLINA DA CANNES 2019 – LA PROTESTA DI LECH KOWALSKI

Nel 2017, la GM&S, fabbrica della regione francese della Creuse che fornisce pezzi all’industria automobilistica, passa in mani diverse, e dunque 277 operai vedono minacciato il loro posto di lavoro. Lech Kowalski segue le settimane di lotta che precedettero un doloroso compromesso: meno della metà si salveranno, ma l’altra metà andrà incontro al progressivo licenziamento.

Che cosa distingue On va tout péter da un qualunque benintenzionato reportage mediatico sugli avvenimenti? Per la verità, poco. Non certo l’organizzazione dei materiali, pressoché interamente finalizzata alla costruzione di un arco drammaturgico piuttosto tradizionale attraverso cui suscitare l’adesione emotiva alla causa da parte degli spettatori. Ed è appena il caso di notare che il cinema francese ha parecchi precedenti quanto alla coincidenza tra romanticizzazione del proletariato sullo schermo, e invece oppressione antiproletaria dietro l’angolo nella realtà (anche al di là del caso sommamente paradigmatico del realismo poetico degli anni 30); c’è insomma un certo rischio, in qualche modo congenito nel cinema francese, di concedere alla classe operaia una grandezza tragica il cui presupposto, subdolamente fatalista, è quello di un’impossibilità propriamente tragica (perché fallacemente percepita come strutturale) di cambiare le proprie condizioni, e Kowalski non sembra sentirsi in dovere di evitare o anche solo affrontare questo rischio congenito.
Per la verità, a conti fatti On va tout péter in questa trappola alla fine non ci cade, a causa soprattutto di quello che è probabilmente l’unico punto a proprio favore nonché l’unica differenza tra sé e un qualunque benintenzionato reportage mediatico sugli avvenimenti, ovvero un punto di vista radicalmente interno a quanto si sta mostrando. Cosa di cui Kowalski sembra essere fin troppo consapevole, dato che nel finale fa culminare il suo film nelle immagini in soggettiva della telecamera che sta venendo rimossa a forza dalle autorità dai luoghi della protesta. E palendosi il punto di vista come nettamente interno e dunque parziale, cade necessariamente qualsiasi pretesa di generalizzazione oggettiva rispetto alla condizione operaia in sé

Va anche dato credito a Kowalski di avere iniziato da un personaggio specifico per poi allargare l’ambito individuale a quello corale e collettivo; si ferma insomma a un passo dall’epica perché Kowalski sarà pure un apprezzabile mestierante del medium dal punto di vista strettamente retorico (e “retorico” qui non è necessariamente da intendersi in senso negativo, ma piuttosto in termini di semplice efficacia comunicativa), ma un poeta no. E certo non aiuta il fatto che il livello dei suoi occasionali interventi in voce over sia di sconfortante superficialità.
La causa, insomma, è certamente lodevole, ed è importante che la protesta di questi operai trovi una eco il più fragorosa possibile. E un punto di vista diverso da quello di mille prodotti mediatici che ci vuole spettatori distanti, indignati e impotenti c’è, perché c’è una prossimità evidente, anche in senso fisico, con le lotte che si vogliono testimoniare. Ma che questa differenza sia sufficiente a dare un qualche risalto a questa operazione, rimane certamente dubbio.