CARTOLINA DA CANNES 2019 – KEN LOACH IN CONCORSO

 

Ricky, Abby e i loro due figli vivono a Newcastle. Abby lavora con devozione per le persone anziane a casa, Ricky fa lavori mal pagati; si rendono conto che non potranno mai diventare indipendenti né possedere una casa. Una vera opportunità sembra essere loro offerta dalla rivoluzione digitale: Abby vende la sua auto in modo che Ricky possa comprare un furgone per diventare un autista in franchise. Ma le derive di questo nuovo mondo moderno avranno importanti ripercussioni su tutta la famiglia.

Nella prima mezz’ora di film (la migliore) mi sono sorpreso a pensare che se Loach avesse continuato su quella falsariga, se stavolta non avesse fatto accadere nulla di straordinario ai suoi personaggi, se avesse mantenuto questa storia sul piano di una costante, dura lotta quotidiana, senza accanimento della sorte, se avesse insomma rinunciato alla solita dottrina Laverty (oramai partner irrinunciabile, anche stavolta autore dello script) che prevede non solo l’individuazione di un aspetto perverso del mondo del lavoro, ma anche la declinazione di tutti i mali possibili che da quella deformazione possono scaturire, probabilmente avrebbe firmato il suo miglior film da molto tempo a questa parte: secco, appassionato, persuasivo. Non sto dicendo che avrebbe dovuto farlo, non sto dicendo che in futuro dovrebbe prendere in considerazione questa possibilità, sto dicendo che per un attimo ho pensato che quello fosse l’obiettivo. Mi sbagliavo. Perché dopo la descrizione del quadro familiare che prevede, nella situazione critica, la scelta del protagonista di abbracciare il franchise, tutto volge al peggio con il solito rosario di disgrazie concatenate una all’altra. Peccato che stavolta il teorema sia condotto all’eccesso, non limitandosi alla descrizione della normale patologia della situazione, ma associandovi anche disgrazie bonus (l’aggressione) e un corollario di ingenuità del protagonista che a volte, diciamolo, un po’ sembra andarsele a cercare. L’ottica è sempre la stessa: anche se è improbabile che tutte le eventualità negative si concentrino su un’unica persona, il catalogo possibile è questo.
Il discorso sull’e-commerce che, spersonalizzando il rapporto tra acquirente e venditore, dà luogo a disumane modalità lavorative, si trasforma, insomma, in un ritratto familiare-sociale a tesi (come sempre) e un po’ pedante (e questo non va).

Il protagonista è completamente succube delle condizioni capestro che ha accettato di provare giocoforza (e che prevedono, per chi le abbraccia, tutti gli oneri di un proprietario dei mezzi, ma quasi nessun vantaggio), la moglie (che bada ad anziani e malati) è punita dal senso di umanità che la pervade (non riesce a vedere nei suoi pazienti dei semplici numeri), ed ecco che l’armonia del nucleo ne soffre: l’assenza genitoriale porta il figlio allo sbando con ulteriori accidenti a catena.
Ma non siamo più, come nel caso di
Io, Daniel Blake al confronto tra il protagonista e la burocrazia, mostro davvero inaffrontabile, ingestibile, categorico, impassibile, che rende credibile qualsiasi aberrazione della sorte. Qui il discorso appare irrigidito sulla dimostrazione del teorema, su figure dittatoriali scolpite ad arte (con tanto di discorso esplicativo in esergo), sul manifesto (sacrosanto, sia chiaro) delle ragioni del lavoratore in franchise esplicitato punto per punto (la moglie del protagonista che si sfoga al telefono con il datore di lavoro del marito) sull’ovvio passaggio del genitore che scopre di non conoscere davvero suo figlio, con abbondanti corollari (i mali della sanità) a fare buon peso.
Davvero troppo per non vedere uno svacco, soprattutto a fronte di una prima parte così ben condotta.
Ci sarebbe anche da chiedersi cosa ci faccia Ken Loach – a suo modo un classico, tante volte in competizione e già premiato due volte con la palma d’oro – ancora in concorso a Cannes, soprattutto con un’opera balbettante come questa.