CARTOLINA DA CANNES 2019 – GLI AMORI IMMAGINARI DI XAVIER DOLAN

Matthias e Maxime sono amici fin dall’infanzia, il primo è un avvocato che sta vivendo una crisi di identità, mentre Maxime ha deciso di cercare fortuna in Australia, dopo un’infanzia difficile a causa della madre tossicodipendente e alcolizzata.

Matthias & Maxime è un “piccolo” lavoro che nasce come antidoto alla malattia del film precedente, il “maledetto” La mia vita con John F. Donovan, il big budget con ambizioni hollywoodiane divenuto esperienza tormentatissima, della quale sembra che il Nostro a un certo punto si sia voluto letteralmente liberare. E come? Lasciandolo andare al suo destino di megaflop e ricominciando subito a girare. Ma ripartendo da un lavoro che fosse distante da quella grossa produzione, il suo controcanto: un film girato nei luoghi della sua vita e circondato da amici e collaboratori consueti (a cominciare da Anne Dorval: La Madre). Ma, come per il precedente, ragionare sull’opera partendo dal discorso produttivo significherebbe lasciarsene condizionare e piegarne l’analisi a una prospettiva che finirebbe per inquinarne la serena lettura (cosa che entrambi i film non meritano). Quindi eccoci qui a lodare il modo in cui Dolan restituisce le dinamiche di gruppo, con quei dialoghi che si incrociano, senza alcuna esigenza di far filtrare un senso comprensibile: cosa importa, del resto? È una comitiva di amici che cazzeggia, che solidarizza, che sa creare prossimità – anche corporale. E distacco, pure: quegli zoom fulminei non stanno a sottolineare le capsule di isolamento in cui ciascuna di queste persone di fatto vive? Non sono quasi delle virgolette vergate con la macchina da presa?
Dolan torna a filmare con esuberanza, ma anche con la maturità del trentenne al suo ottavo film: lirismo sì, ma prosciugato, poco spazio per il gesto registico ostentato (la scena del bacio, ovviamente, con quella carrellata laterale dall’esterno della casa, a inquadrare le due situazioni in atto: la riunione amicale da una parte – a fuoco -, il convegno amoroso dall’altra – filtrato da un telo di plastica -), simbolismo quasi introiettato (una pianta nell’ufficio di Matthias sparisce: un barlume di vita che evapora): insomma la base è naturalistica, ma non appena il sentimento si infiltra nel discorso ecco che la stessa estetica del film comincia a rifletterlo.
Passano gli anni, Dolan cresce sotto i nostri occhi, e il suo cinema rimane felicemente in bilico tra urgenza espressiva e consapevolezza linguistica.