Pachiderma che nessuno, forse nemmeno un Gilles Jacob, sarebbe capace di domare e guidare con successo nei quanto mai caotici e ostili territori del mediascape contemporaneo, il festival di Cannes a direzione Fremaux è tutt’altro che estraneo a sbandamenti di sorta. Sbanda, il festival, soprattutto quando si mette in testa di “coltivare” gli autori emergenti sbagliati, nel modo sbagliato. Dispiace constatare che Mendonça Filho è ormai uno di loro: il suo Bacurau, ammesso nel concorso principale tre anni dopo quell’Aquarius che lanciò il brasiliano all’attenzione internazionale, delude senza appello le aspettative.
Il punto di partenza, come già per Aquarius, è un tenace nodo geopolitico: un villaggio sperduto nel Nordeste che, nel futuro prossimo, vede sottrarsi le risorse primarie (acqua inclusa) ad opera di un’imprecisata multinazionale, e che vede gli abitanti resistere aiutati da un gruppo di coscienziosi gangster. Qualche coscienza di quello che fa, Mendonça Filho ce l’ha; egli è consapevole che quando un antagonismo, come in questo caso, è strutturale, non solo non può esserci mediazione possibile, ma la rappresentazione delle dinamiche stesse del conflitto non sarà mai adeguata a dare forma a un conflitto per definizione insolubile. L’unica maniera per rappresentarlo, dunque, è attraverso l’eccesso: la violenza, ovviamente, ma può trattarsi solo di una violenza in qualche modo sempre gratuita, ovvero mai perfettamente coincidente con le dinamiche del conflitto, esse stesse impossibili da racchiudere in una rappresentazione stabile. Per questo, accanto al sangue che scorre a fiotti abbiamo scene di sesso completamente immotivate, scarti di tono e di ritmo improvvisi e radicali, e altri squilibri vòlti intenzionalmente a manifestare l’eccesso strutturale del conflitto.
Potenzialità insomma ce n’erano eccome: peccato che Mendonça Filho le sfrutta nel modo più pigro possibile, ovvero appoggiandosi sulla frustissima stampella del realismo magico. Per l’ennesima volta, insomma, il conflitto tra global e local viene suggerito associando il secondo termine a una qualche forma di irrazionalità per propria natura più vicina alla sostanza strutturalmente eccessiva del conflitto, e dunque “superiormente razionale”, di contro invece alla falsa razionalità degli avversari che di razionale ormai hanno solo l’inflessibilità delle proprie dinamiche autodistruttive. E quello che è peggio è che queste banalità ci vengono somministrate con un espediente narrativo stucchevolmente programmatico (una pillolina allucinogena che chiunque entri a Bacurau deve ingoiare), e più in generale calcolando freddamente a tavolino i momenti di eccesso, gli squilibri di tono etc.: ad esempio, a un certo punto il film ci fa passare un bel po’ di tempo in mezzo ai “cattivi”, rischiando così di portare da quelle parti la nostra identificazione, quand’ecco che puntuale arriva l’omicidio a sangue freddo di un bambino a telefonarci da che parte stare in vista dell’incipiente duello finale.
Del resto, il film era cominciato con un funerale che cercava di catturarci emotivamente con una lunga scena cantata sulle note di quel Sergio Ricardo i cui accordi neo-folk cinquantacinque anni fa ci avevano accompagnato nel Nordeste lungo tutto l’immortale Dio nero e diavolo biondo di Glauber Rocha, pietra miliare di maturità politica ed estetica assolutamente imparagonabile. Un vilipendio davvero ai limiti del codice penale.