
Like Father, Like SonAssenza e presenza, 0 e 1, sono categorie che nel mondo di Hirokazu Koreeda non trovano spazio. Non c'è un 1 che si contrappone allo zero: al massimo può esserci uno zero virgola uno (0,1): ciò che chiamiamo “vita” può essere solo una passeggera increspatura su una superficie fondamentalmente immobile, e pronta subito dopo a ritornare immobile.
_x000D_Per questo il mondo di Koreeda, anche se può non sembrare, è quello della commedia: il mondo, cioè, dove le differenze sono piccole differenze, e gli squilibri in cerca di ricomposizione sono piccoli squilibri. Anche e soprattutto dove c'è la morte di mezzo, come in quell'Afterlife che lo rese celebre una quindicina di anni fa.
_x000D_C'è dunque una logica dietro al fatto che per firmare il proprio film migliore in assoluto (fino ad oggi), Koreeda ricorre a uno dei cliché più sempiterni della commedia: lo scambio di neonati nella culla. Scambio che, ovviamente, coinvolge una famiglia ricca e una povera, un padre allegramente perdigiorno da un lato e un workaholic di successo dall'altro. Perché Koreeda fa aderire il nostro punto di vista a quello del secondo? Perché vuole che lo spettatore si “mondi” dell'illusione di cui, con fatica, arriva a liberarsi quel personaggio: che possa esserci qualcosa come una linea del sangue che prosegue di padre virtuoso in figlio virtuoso e così via. In ballo non c'è, ovviamente, solo un'idea di paternità, ma un modo di concepire il tempo. L'illusione da abbattere è quella che esista una linea retta, che gli sforzi siano l'anticamera del risultato, che da 0 si passi a 1 e magari anche a 2.In frontale opposizione a questa idea (peraltro non priva di corollari politico-sociali, su cui il film non si attarda ma che tratta quanto basta per renderli inequivocabili), Koreeda costruisce tutto il suo film. Prende i suoi tre-quattro spunti narrativi “forti” (la scoperta dello scambio, il processo penale, l'inversione riparatoria dei pargoli tra le due famiglie…), ciascuno lo sminuzza in pezzetti più piccoli, e poi li sparpaglia lungo tutto il film alla massima distanza reciproca possibile in modo da disattivare il loro potenziale di concatenamento (dunque di azione). Rimane una tendenziale e fortissima indipendenza delle singole scene, tutte dolcemente adagiate su toni supinamente quotidiani e ordinari, ulteriormente smussate dalla tendenza figurativa all'immobilità e all'equilibrio, ogni volta attraversate appena da una scossa minuscola.
_x000D_Zero virgola uno, e non zero contro uno. La svolta del film (il ri-scambio riparatore) viene sigillato da una foto di gruppo: lo schermo si immobilizza, e subito dopo riparte il movimento. Di fatto, è come se virtualmente questo succedesse a ogni scena e ogni inquadratura. Raramente dai tempi di Pioggia nera (1989) di Shohei Imamura un film era andato così a fondo nel costruire una prospettiva di azzeramento affinché sulla sua superficie possa rinascere una qualche forma residuale di vita.
_x000D_Lo si dice da decenni: il cinema nipponico dopo Hiroshima è legato a doppio filo (dai mostri di Honda a Tetsuo e oltre) all'idea della catastrofe e della mutazione oltre l'umano. In Giappone, oggi, nessun cinema dà conto di questo orizzonte postumano altrettanto bene di quello umanissimo di Koreeda, specie in questo suo ultimo capolavoro dove a venire messo fuori asse è il più piccolo livello di mutazione possibile: la patrilinearità.