CARTOLINA DA CANNES (19/05/2018) – Le anime fiammeggianti di Lee Chang-dong

Prima di dirigere film, Lee Chang-dong è stato romanziere. E si vede. A giudicare dalla piega che ha preso ultimamente la sua carriera, è lecito ipotizzare che, per lui, quando una storia passa dalla carta stampata allo schermo, ciò che radicalmente cambia è il rapporto in cui entrano quei fondamenti del raccontare (e del vivere stesso) noti da millenni come “potenza” e “atto”. E qui pensiamo soprattutto a Poetry (2010), pellicola interamente incentrata sugli intrecci perversi tra il poter fare, il non poter fare, il poter non fare, e il non poter non essere.
Anche in questo nuovo Burning siamo più o meno da quelle parti, e Lee ce lo fa sapere fin dall’inizio. Quando il giovane Jongsu incontra l’amica di infanzia Haemi, studente di pantomimica che, più o meno come lui, sbarca il lunario con lavoretti precari, lei finge di sbucciare un mandarino immaginario, aggiungendo che nonbisogna pensare che un frutto esistente non esista, ma che uno inesistente smetta di non esistere. Dopo un prevedibile flirt, Jongsu viene incaricato di nutrire il gatto di lei durante la sua assenza causa volontariato in Africa. Il gatto, però, non si vede mai: solo i suoi regalini nella sabbia. Esiste? Non esiste? Non importa.
In se e per se, la storia che seguirà, benché tratta da Murakami (il racconto “Granai incendiati”) è abbastanza banale, ma il merito del lucidissimo Lee è di averla trasfigurata in maniera semplice e assai efficace concentrandosi, appunto, non su ciò che effettivamente accade, ma su ciò che potrebbe accadere. Trovatosi nel bel mezzo di uno scomodo triangolo allorché la volubile Haemi ritorna dall’Africa insieme al misterioso e ricchissimo coetaneo Ben, il quale gli confessa l’inquietante hobby di incendiare serre a intervalli regolarmente bimestrali, Jongsu comincia, come si suol dire, a “farsi film nella sua testa” sugli altri due. Ecco: Burning questi film non ce li mostra, ma mostra scrupolosamente la testa in cui hanno luogo. Il che significa che Lee si disinteressa della storia, rinuncia a chiarire snodi narrativi cruciali destinati a rimanere ambigui, e si limita a mostrare gli indizi sparsi di una storia che potrebbe essere, ma che non esiste se non nei suoi sintomi residuali (un po’ come la sopracitata cacca del gatto), i quali assumono una consistenza propriamente narrativa solo nell’immaginazione di un personaggio rispetto a cui la macchina da presa, tenuta in mano con ogni evidenza da un romanziere, si mantiene in completa esteriorità, rinunciando cioè ad entrare nella sua testa per riprendere invece in lungo e in largo il suo agire esteriore in tutta la sua impenetrabile opacità (se nel film ricorre più volte il nome di Faulkner, del resto, non è un caso). Il che vuol dire, fra le altre cose, adottare un atteggiamento verso l’azione del personaggio il più possibile “a-selettivo”, ovvero mantenendo un ritmo estremamente disteso e rilassato grazie a cui viene evitato il più possibile di “secare” il flusso dell’azione per dare risalto a ciò che più conterebbe ai fini della storia, e che qui invece viene lasciato galleggiare in un’anodina, indistinta continuità organica col fluire ordinario del tempo. Da cui l’affascinante, incessante sensazione di non capire mai verso dove il film si stia dirigendo, e perché.
Si tratta, insomma, di un film di pura messa in scena. Un film che per trasmettere una storia in potenza, solo possibile, che non si realizza mai in atto se non nel momento in cui si inscrive in ciò che fin dall’inizio è fuori dalla dinamica potenza-atto in quanto destino (non riveleremo certo in che modo, ma è qui che si incastra, genialmente, la sottotrama sull’intemperante padre di Jongsu alle prese con la giustizia), gioca alla grande con la luce studiatamente naturale degli esterni, con le atmosfere di albe e tramonti, con la flagranza dei luoghi, con un dipanarsi della narrazione che è arioso ed ellittico al tempo stesso, e che accetta di perdersi in pause contemplative per seguire le danze di Haemi, o le interminabili corse nella campagna di un Jongsu le cui ragioni ci sono né chiare né oscure, ma piuttosto oscuramente chiare. Grazie a questo brillante lavoro di messa in scena, Burning riesce ad essere un film limpidissimo e segreto al tempo stesso. Come lo è del resto il dislivello di classe, e la conseguente invidia di classe, che Lee Chang-dong nelle interviste dichiara essere, abbastanza improbabilmente, il centro del film. La differenza tra l’agiatissimo Ben e l’indigente Jongsu, che è dentro fino al collo in un inferno di precariato giovanile di cui il film ha cura di sottolineare le aberrazioni, è lì, spiattellata davanti ai nostri occhi in tutta la sua visibilità. Ma è una visibilità tanto accecante quanto fine a se stessa: se c’è chi nuota nell’oro e chi invece si arrabatta come può, è così è basta. Senza ragioni.